Fellinia 3

Il buon Martin Scorsese vede cose, nuovo Savinio, che noi non vediamo, una Rimini che gli Americani ci devono ancora spiegare. Noi invece, abitanti di Fellinia, siamo perplessi e vediamo intorno a noi, in un incubo che ci assale anche la notte, la città di Blade Runner.
Nel suo splendido Voyage to Italy Scorsese ha dedicato al cinema italiano un omaggio toccante, ma è cinema, cinema italiano, ogni sovrapposizione con la realtà di oggi è ridicola.
Lasciamo agli americani gli stereotipi utili a rimpinguare il nostro erario, sperando almeno che venga redistribuito – basta andare in un agriturismo nel Chianti per capire cos’è l’Italia vista da Sharon Stone e dai suoi connazionali, ma bisogna pur ammettere che quel Chianti lo hanno pur salvaguardato – facciamo pur finta di crederci per essere credibili, ma qui tra noi ci sono degli idioti, lontani da Dostoevskij, che ci credono veramente; Fellinia insomma vuole diventare cinema, una grande opera Pop, ma quando Fellinia si chiamava Rimini non nasceva sul deserto come Las Vegas, c’era parecchia Storia, una Storia puntellata anche di audacia e sperimentazione in “quel” contemporaneo, penso all’Alberti.
Si potevano comprendere i parenti del Nostro Grande Regista, che dovevano riscattarsi da duri anni di anonimato represso, mossi da una più che giustificata rivalsa socio-antropologica che salta dall’invisibilità provinciale all’internazionale lasciando poveri cristi piegati sul duro lavoro intellettuale a bocca asciutta. Ma non tutta una città! Dai bar appena scendi dal treno ai ristoranti, ai consorzi enologici, alle piazze, alle rotonde; aveva ragione Zavoli, è un Fellini in tutte le salse, non se ne può più. Cerchiamo allora di essere radicali, come al tempo delle Avanguardie, chiamiamola Fellinia definitivamente e tutto quello che c’è dentro saranno manifestazioni animistico-consumistiche dell’incolpevole Maestro.
Dietro il paravento Fellini, questo Padre Pio della città (visto che la città “recita” la laicità centrosinistra e un santo viene sostituito da un regista), si saccheggia e si ruba mare e paesaggio vomitando cemento in una totale autoassoluzione “culturale” e imbecille.
Lo so, un giorno le statue di Fellini piangeranno sangue, come le Madonne dei giardinetti mescolate ai Sette Nani, e noi tutti ci chiederemo perché.
Ma il furto è anche un altro, nello “specifico”.
Quando anni fa nell’anfiteatro romano – no, vi prego, lasciamo per ora perdere com’è stata acconciata quella rovina – venne presentata la pellicola restaurata del Maestro, Il Bidone, tutti parlarono di tutto, aneddotini di nuovi acculturati e neo-laureati, persino storielle di cattivo gusto sull’alcolismo del notevole Broderick Crawford e infine su un grande sceneggiatore, uno davvero grande ve lo assicuro, la Rimozione Biblica fu sconcertante: Ennio Flaiano.
Non assolviamo neppure Scorsese che nel suo omaggio al cinema italiano dichiara che I vitelloni lo ispirarono per Goodfellas, in Italia conosciuto con il titolo di Quei bravi ragazzi.
L’italo-americano non cita, o non sa, che Ennio Flaiano, abruzzese, costituisce la vera ossatura del film.
“Vitellone” è parola abruzzese, deriva da “vudellone”, grosso budello, in famiglia è indicato come un figlio ormai adulto che mangia a ufo, animale all’ingrasso. E poi, in tutti i film del Maestro, l’amico Flaiano graffia inconfondibilmente: il collegio in 8 1/2, il mare finale della Dolce vita, persino il paparazzo, reporter spericolato romano dei “dolci” e “favolosi” anni Sessanta, deriva da “paparazze”, le vongole nel dialetto abruzzese, altra invenzione flaianea. Da noi l’eco è “poveracce”, è lo stesso mare Adriatico in fondo.
Ma si potrebbe continuare, qui non c’è spazio, e ci faremmo solo del male senza alcun lenimento.
Allora il furto non è solo del territorio martellato dal Kronos dello sviluppo ma anche nel Logo, nella sua finta e menzognera filologia, nel suo fissante culturale spruzzato da stagionati coiffeur, furto delle nostre intimità intellettuali e di conoscenza, facendo pure del male ai morti, ricancellandoli di nuovo, pur innalzando loro Monumenti per poi affossarli, solo per costruire un marchio DOC globale, semplificato, localistico e separatista, protoleghista, pur professandoci aperti all’altro ed alla sua accoglienza ma indossando il tasmanian elegante della doppia morale della “secessione” ideologica intramuros e quella dell’eterno portafoglio, dualismo che ormai non incanta più nessuno, statene certi.
Si preferisce dunque l’Uno, facile da vendere, e non l’insieme complesso che compone quell’Uno, si scarta la voce non funzionale e si persegue la nuova religione idolatrica laica che schiaccia vivi e morti.
Noi, vivi, possiamo almeno reagire.
Ma, poeticamente, persino praticamente, siamo costretti a farci carico pure della voce strozzata dei morti.

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