Ravenna. Nebbia

La città la tenevi in pugno. Impossibile perdersi.
Ma, come un pugno, era chiusa.
Leggibile e chiara, ma inespugnabile; mura reali, mura invisibili, la trattenevano in una ferrea distanza difensiva.
I palazzi, tagliati da architetti adusi a lame e coltelli, si affacciavano alle strade, senza balconi. Nulla era concesso all’esterno. Eppure ci si sentiva osservati, spiati. Si intuivano corti e giardini interni. Una città intrusa.
Il giovane padre ed il suo bambino affrontarono la piazza la loro prima domenica da nuovi residenti, andando con la memoria all’abitudine mediterranea della passeggiata domenicale nella piazza, ove il mondo e gli uomini appaiono, puoi vederli.
La piazza era vuota, i caffè chiusi, i passi risuonavano in un deserto.
Il giorno di festa sembrava giorno di lutto o forse lo scomparire, in queste latitudini, era una forma del riposo, l’immagine di una sospensione. Una città fantasma, quando l’agire si ferma.
Ma dove si svolgevano le forme dell’agire domenicale in questa città?
I colleghi di lavoro presto lo informarono delle abitudini locali.
Alcuni avevano un “capanno”, ai bordi dei canali che segmentavano la terra umida, e qui con la “famigliola”, come la chiamavano, ed altri amici, si riunivano per delle “mangiate”.
Altri avevano casa al mare, a pochi chilometri, tra agglomerati che facevano il doppio minore della città di pietra.
Altri ancora, in tuta da ginnastica – ed il giovane padre lo aveva già notato – lavoravano al loro giardino, hortus conclusus nell’inclusione occlusa, o facevano lavoretti alla loro proprietà, piccola o grande che fosse.
La città metafisica era città a maggioranza comunista.
In comune gli abitanti avevano spiccato senso della proprietà: comunismo voleva dire possesso.
Essere proprietari costituiva il socialismo realizzato. Essi avevano una loro lingua, un dialetto che li contraeva dal resto del mondo, distillandola in teatro e poesia.
Il leghismo sfacciato e razzista era ancora da venire ma qui lo si praticava al naturale, socialmente connaturato nella farsa dell’internazionalismo proletario dei proprietari.
La famiglia terrona della sposa consuma il pasto nuziale in un tavolo appartato, nessuno vi si siede; “i meridionali sono brava gente”, recita il perbenismo comunista, ma tenuti lontani, nelle banchine portuali, nelle pance umide e ferrose delle navi, a morire di caporalato nel paradiso sindacale.
Dopo molte settimane il giovane padre trovò una casa. “Voi meridionali poi fate i figli e non ve ne andate più”, gli dicevano secche e anziane donne, vite consumate a stendere la sfoglia per le taglatelle e le piade.
Avrebbe voluto rispondere: “Ché non li avete voi i figli?”. “Perchè, quando li fate voi poi ve ne andate?”.
Ma i danari del contratto del tanto desiderato affitto non erano quelli realmente elargiti.
In “nero” ci si doveva aggiustare con gli ex demolitori, ora sostenitori dello Stato, ma esperti evasori, gran risparmiatori.
Straordinarie carriere politiche erano possibili, geometrie familistiche, parentali, già disegnate con lo squadro nel loro destino sin da piccoli, grazie al Partito, Padre buono che elargiva lavoro a chi non lavora.
Il controllo del Partito era totale, stretta forse in una misterica alleanza con la Massoneria.
Ai restanti disoccupati pensavano i partiti minori.
I bar, gli studi professionali, le tipografie, i supermercati, le librerie, tutto diviso secondo appartenenze. Tutto era cooperativa, tutto era socialismo realizzato.
L’ingranaggio escludeva l’errore che veniva autorisanato grazie ad un metabolismo interno: una promozione, uno spostamento di carriera, un “non lavoro! Inventato ad personam.
La cittadinanza, i diritti, il lavoro, la carriera, erano garantiti dalla Tessera.
La critica e la diversità erano guardati con silenzioso sospetto.
Ad esse non seguiva nessuna reazione repressiva o punitiva immediata. La morale comunista riformata, paladina dei diritti della donna e dell’uomo, delle ragazze e dei ragazzi, delle lavoratrici e dei lavoratori (seguendo una partitura sessuale politicamente corretta), delle persone “in carne ed ossa”, come ripetevano ubbidienti alle nuove formule linguistiche, non consentiva atti illiberali immediati ma solo quelli omeopatici e di lunga durata.
Lentamente potevi avvertire che ti avevano tolto qualcosa, e sentirti all’improvviso emarginato.
L’illiberalità in fondo è solo questione di tecniche e di sfumature nella nostra italica patria.
“Non è opportuno”. “Scarsamente utile”. “Vedremo in un secondo tempo”. “È un momento politicamente difficile”. “Stiamo realizzando un nuovo gioco di sottili alleanze”. “Pur apprezzando il contributo di idee in questa fase…”.
Con queste frasi, omeopaticamente, si veniva fatti fuori.

rovine

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