Antonio Michetti. (uomini pescaresi)

Antonio Michetti, architetto, per gli amici “Tonino”, ha una stratificazione nel nome che per Pescara è autentica storia.
Tale peso tuttavia viene portato con scioltezza e leggerezza; non c’è nulla da dimostrare, si è agiti da imperscrutabili disegni genetici che si mettono in gioco anche indipendentemente da noi, nel bene come nel male.
Solo nella revanche sociale, o nelle persone insicure, o di scarsità intellettuale, risiede il problema dell’identità, fondata spesso su una improbabile discendenza virtualmente autocostruita.
Quando si sa ciò che si è, non è necessario dimostrare nulla; tutto sembra normale.
Si è uomini semplici.
Michetti ha progettato e realizzato molto, dagli interni – sia negozi che abitazioni private – case unifamiliari, ville, edilizia pubblica, piani urbanistici e numerose opere architettoniche collettive che vanno dalle scuole ai cimiteri, chiudendo così metaforicamente quasi tutto l’arco della nostra esistenza.
Michetti appartiene alla generazione degli architetti che potevano fare ancora proprio il motto: “dal cucchiaio alla città”, nel senso che l’approccio metodologico al progetto può essere lo stesso se si seguono alcune procedure concettuali e formali distribuite e risolte caso per caso.
Dispositivi oggi assolutamente impensabili.
Michetti studia a Roma, si laurea con Ludovico Quaroni. Questo maestro dell’architettura – che ci ha lasciato una bella chiesa a Francavilla, tanto per rimanere in un nostro ambito geografico – ha come assistente un giovane chiamato Manfredo Tafuri, che presto diventerà uno dei massimi storici e critici dell’architettura, morto alcuni anni fa e ancora indimenticato.
Nei suoi anni giovanili di insegnamento al Liceo Artistico di Pescara, Michetti trasferisce agli allievi, in quelli che hanno avuto la fortuna e la voglia di godere delle sue “performance” didattiche, una grande propensione verso la “forma”, la “composizione”, il “disegno”, ma anche una certa attenzione verso la teoria, la storia, la critica, la lettura dei testi, le riviste di architettura; Quaroni e Tafuri appunto.
“Il bello è difficile”, diceva Baudelaire, e Tafuri leggerlo a diciassette anni era davvero complicato, ma alcuni di noi leggevano “Teorie e Storie dell’architettura” nell’ultimo anno di Liceo.
Si capiva il trenta per cento ma l’incoscienza era incontenibile.
Si fa sempre in tempo a scendere in basso ma se si comincia dall’alto è sempre buona cosa.
Anche questo, per gli attuali giovani esordienti, è nella maggior parte dei casi, quasi impensabile.
Trenta, quaranta anni fa le nostre scuole d’arte erano straordinarie, alcuni insegnanti non erano meno preparati di quelli delle Accademie di Belle Arti o delle Facoltà di Architettura.
Michetti spalmava intorno a sé un’apparente creatività disordinata, irradiata anche dalla sua persona; distratto, sapientemente sgualcito nel vestire, costantemente spettinato.
Il suo era abito e habitat dell’architetto di allora, e che ci piaceva; era perfetto.
La sua auto sportiva, improbabile e “scomoda”, una Alfa Romeo GT 1300 Junior nata nel “66” (tutto si giocava in quel Junior, chiaramente visibile nel retro dell’auto!) era il prolungamento del suo studio con disegni, riviste, libri, tutti ammassati nei sedili posteriori e se ti dava un passaggio dovevi effettuare traslochi al momento, per sistemarti alla meglio in questa specie di studio viaggiante.
Formalista e grafomane, disegnava architetture meccanicamente anche quando parlava al telefono, riempiendo tutta una serie di foglietti con volumi platonici o di lettere dell’alfabeto che, formando magicamente una parola che il committente dall’altro capo del telefono perentoriamente ripeteva, venivano poi tradotte in volumetrie assonometriche o prospettiche, con ombre ed effetti tridimensionali.
Il suo strumento preferito era il “Caran d’Ache”, il famoso porta-mine svizzero, nero, con il tappino colorato, a scelta, nei tre primari, che si sfila per appuntire la “mina” in una pausa sapiente che dice al foglio: “sto per tornare”; con una ruvidezza, una sabbiatura, nella parte bassa dell’impugnatura, quale soluzione antisudore, quasi parafrasando Leon Battista Alberti circa la fatica del “disegnare” (del “costruire”).
Nel suo studio ho imparato a tirare una lunga linea al tecnigrafo con la grafite dentro il portento svizzero, mantenendo lo stesso spessore dall’inizio alla fine del tratto.
Il segreto sta nella rotazione; al movimento rettilineo deve corrispondere una rotazione costante lungo il percorso, con una tecnica prensile simile a quella cinese quando si mangia e si maneggiano le bacchette.
La punta la si fa sfruttando il supporto ed il percorso, (pensare l’efficacia) e lo spessore sarà uguale, per un po’; poi riaffilare, sostare, pensare e riaggredire il lucido.
La sezione orizzontale mediana, esagonale, della “Caran d’Ache”, si smussa nella parte finale in un tronco di cono aerodinamico. Inconfondibile è la marcatura con i famosi, minuscoli, tre pesciolini, in fila, saettanti verso il futuro.
Chi non sa guidare è inutile che si cimenti con una Porche; chi non sa disegnare tralasci la “Caran d’Ache”, è troppo accessoriata per lui.
Senza questa esperienza si avrà difficoltà anche con il “mouse”, che vorrebbe destreggiarsi con CAD e modellatori 3D.
Tra le opere realizzate da Michetti, quella che preferisco, è una scuola “dentro” una scuola.
Al Liceo Scientifico Galilei di Pescara, disegnato negli anni Trenta dagli architetti Mario Paniconi e Giulio Pediconi, piccolo capolavoro razionalista, Antonio Michetti, insieme ad Alfredo Trulli, ha affiancato un suo progetto leggero e trasparente, neo-organico con ossigeno tecnologico, lasciandosi definitivamente alle spalle la pesantezza anacronistica del cemento.
Un uomo eternamente giovane, anche se sornionamente tende a schernirsi ma, come sappiamo, questo appartiene al giusto ed equilibrato dosaggio narcisistico, utile al sostenimento ed alla durata.

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