Alighiero e Boetti

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Alighiero ha sempre rappresentato, per me, il sistema logico applicato al fare artistico, il senso di finito ed infinito, la cornice e l’illimitato, la crescita e lo zero, il vuoto e la proliferazione ossessiva, il concetto che si fa vertigine, il numero che si dissemina nei reticoli celebrali, il visibile ultravisibile, il gioco matematico, l’intelligenza dell’infanzia. Boetti ha rappresentato invece il lato sfuggente, continuamente in fuga, impermanente, instabile, opaco, il passo rapido di chi va via e non di chi viene, la volubilità insensata, il lavoro incompiuto, la seduzione oppressa dalla durata, la porta socchiusa, la soglia, la luce tagliente, radente.
Oppure Alighiero è stato la poesia, la sensibilità per le materie sia naturali che inerti, sia viventi che inorganiche, la poesia della matita, mentre Boetti era la distanza neutra dalle cose, cose “ononime”, delega del lavoro come accentuazione del distacco soggettivo, linguaggio ripetitivo, la penna a sfera blu.
Alighiero è il soggetto onnipresente e Boetti la sua cancellazione (narcisistica), Alighiero è Torino, mentre Boetti è Roma, o forse l’opposto, Alighiero è il mare dell’alto Tirreno e Boetti la terra o il deserto dell’Africa o del Medio Oriente, Alighiero è la carta Fabriano e Boetti la carta chimica delle Xerox, Alighiero è raccoglitore di oggetti per sé mentre Boetti li raccoglie per firmarli, Alighiero è per il tempo da perdere e Boetti per prenderlo, Alighiero è per Boetti mentre Boetti è contro Alighiero, o il contrario, Ali-ghiero è l’esotico mentre Boetti sta bene fermo nel suo studio, Alighiero sta immobile e Boetti viaggia o, accordandosi qualche volta, si scambiano i ruoli.

Antonio Marchetti ©

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