Antonio Marchetti sul Grandevetro

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Lutto, cordoglio, dolore, son parole desuete. Da diversi anni si applaude nei funerali. I parenti dei morti, che per varie ragioni cadono sotto i riflettori dei media, rilasciano immediatamente interviste o convocano conferenze stampa ove hanno poco da dire, se non piangere in diretta o ripetere ciò che hanno già sentito in televisione in scenari analoghi. Ulteriore morte, della nostra lingua. Si può comprendere perché: differire, allontanare, rimuovere la morte; alleviare la perdita, per quanto è possibile. Il lamento funebre descritto da Ernesto De Martino lo svolge la tivù, e la telecamera è un demone irresistibile. Come per i criminali, che secondo i vicini di casa erano brave persone normalissime, così per i morti vengono a volte costruite biografie straordinarie. I morti, da vivi, erano tutti unici e meravigliosi. Mantenere un rigore critico per i morti quand’erano vivi è considerato inaccettabile per i vivi, che spesso sono premorti. Per i bambini viene riservata una categoria a parte: sono tutti angeli. I bambini erano probabilmente oggetto di disattenzione e distrazione ma da morti diventano angelici e ci si accorge di averli avuti. Tutte le scuole  primarie d’Italia vengono mobilitate per far disegnare angioletti e cuoricini per i bambini morti in condizioni tragiche, o per inviare letterine a chi non potrà mai leggerle, se non lassù, non si sa dove. Non bisogna certo generalizzare o lasciarsi trasportare troppo dal cinismo critico. In effetti siamo in grado di comprendere il vero dolore per la perdita di una persona cara quando esso appare muto ed inesprimibile, o avvolto da pudore e riservatezza, quando cala la coperta del silenzio, dell’assenza. E, stiamone certi, ciò è sempre guardato con un certo sospetto dai festivalieri della morte. Ma è pur vero che non possiamo giudicare, ognuno reagisce come può e tuttavia non sempre il dolore rende migliori; la morte rivela quel che siamo. Tutto questo vale per la morte altrui. E per la nostra? Penso spesso alla morte, non tanto a quella programmata che è un’illusione, pur avendo già stilato il mio testamento biologico che nelle latitudini italiane non so quanto possa valere; penso piuttosto a quella improvvisa, che potrebbe cogliermi impreparato – impreparato a cosa? Magari quel giorno la mia biancheria intima non è proprio pulita, i piedi non sono stati lavati da qualche giorno e l’odore, tolti i calzini, non è piacevole. In quella morte improvvisa ho rilasciato, forse, urina e feci. Mi preoccupa la corsa in ospedale, già quasi morto, e non essere preparato agli sguardi dei medici, degli infermieri, pur contando sulla loro professionalità; mi preoccupa l’ansia e l’angoscia di chi mi vuol bene; mi preoccupa il fatto di non potermi difendere, autotutelarmi; sono debole, fragile, esposto, e ne provo vergogna – ma forse potrei riscattarmi se hanno guardato nel mio portafoglio il tesserino di donatore di organi; ma chi mi vorrà più ormai!

È vero, ho vergogna della mia morte. Come K. nel finale di Der Prozess.

Ma questo è un sentimento che provo da vivo e mi chiedo: chi mi preserverà dalla vergogna da morto? Ho deciso per la cremazione per lo stesso ordine di motivi. Sarò esposto agli sguardi, i vivi guarderanno il mio corpo immobile mentre io non posso restituirlo e non posso rispondere alla vergogna della morte, che in questo caso è solo mia e vorrei un pochino gestirla. Vien da pensare che ad una biopolitica della morte possa nascere una sua nuova ideologia, una  sua riappropriazione (il corpo – morto – è mio). La parola che in effetti avrei dovuto aggiungere all’inizio è “pudore”. Ma il mio pudore, me ne rendo ben conto, è alquanto snobistico, e le mie preoccupazioni di carattere “estetico” cadono facilmente di fronte a tutte le morti anonime e senza voce, senza grido e senza silenzio. Già, sono individualista e fortemente radicato a questa cultura occidentale che mi lascia ancora qualche spiraglio; ne morirò, per questo. Che si accolga, almeno, qualche mia desiderata. Le mie ceneri vorrei che in parte siano disperse in giardino, riunendomi con cani e gatti (non posso non pensare all’esilarante scena del film Il Grande Lebowsky).

Il resto in  una piccola urna che qualcuno vorrà conservare. La morte è sempre un’incombenza per coloro che restano ed è nostro dovere alleggerirli, per quanto possibile. Sui suicidi degli ultimi mesi a causa della crisi penso si tratti di una mancanza di responsabilità e il cui peso ricade sulla famiglia. Molti giornalisti sono imbecilli e ci hanno ricamato sopra vergognosamente. Possibile che solo l’economico e il lavoro sostanziava una vita degna di essere vissuta? Tragedie silenziose, non semplificabili; l’uomo può anche essere semplice ma il  pensiero dell’uomo è complesso, e certamente non vi rinunciamo.

Per il resto che dire, mi viene sempre in mente quella bella definizione sui fantasmi di René Daumal, che a mio parere vale anche per la morte: un’assenza circondata di presenza.

Forse anche troppa.

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