Archive for the ‘Ritratti’ Category

Uomini pescaresi. Introduzione

lunedì, Gennaio 15th, 2007

Questa raccolta di figure “pescaresi”, legate al mondo dell’arte, dell’architettura e della creatività in generale, non vuole mettere in evidenza ciò che la città di Pescara, negli ultimi decenni, ha partorito di meglio. Sarebbe tra l’altro difficile districarsi sulle varie e nuove alterità cittadine.Pescara è una città che non solo sogna il futuro realizzandolo, ma lo vive quasi come un incubo irrinunciabile.Il narcisismo dell’immanenza quotidiana demolirebbe in ogni caso, e rapidamente, questa piccola antologia.Di conseguenza, su questo gruppo di uomini, per fugare ogni equivoco, viene praticato esercizio di memoria, setaccio implacabile e rovesciato ove rimane l’essenziale, mentre l’irrilevante, la grana grossa, viene momentaneamente accantonata; potrà essere raccolta da altri, e farne poi materia fine.Nelle poche figure raccolte è impresso insomma il timbro della mia memoria personale, come se il tempo si fosse per me fermato, come in una fotografia, e questo, per talune comunità sempre in movimento, è quasi imperdonabile.Tre di loro, Michetti, Summa e Colacito, sono stati miei insegnanti di Liceo; questo non vuol dire che le cose mi si siano presentate in forma più semplice, anzi, liberarsi dalla prossimità giovanile e dai “maestri” di allora è cosa sicuramente più complessa.                                                                          (Ettore Spalletti Elio Di Blasio Paolo Di Pietro)

Antonio Michetti. (uomini pescaresi)

lunedì, Gennaio 15th, 2007

Antonio Michetti, architetto, per gli amici “Tonino”, ha una stratificazione nel nome che per Pescara è autentica storia.
Tale peso tuttavia viene portato con scioltezza e leggerezza; non c’è nulla da dimostrare, si è agiti da imperscrutabili disegni genetici che si mettono in gioco anche indipendentemente da noi, nel bene come nel male.
Solo nella revanche sociale, o nelle persone insicure, o di scarsità intellettuale, risiede il problema dell’identità, fondata spesso su una improbabile discendenza virtualmente autocostruita.
Quando si sa ciò che si è, non è necessario dimostrare nulla; tutto sembra normale.
Si è uomini semplici.
Michetti ha progettato e realizzato molto, dagli interni – sia negozi che abitazioni private – case unifamiliari, ville, edilizia pubblica, piani urbanistici e numerose opere architettoniche collettive che vanno dalle scuole ai cimiteri, chiudendo così metaforicamente quasi tutto l’arco della nostra esistenza.
Michetti appartiene alla generazione degli architetti che potevano fare ancora proprio il motto: “dal cucchiaio alla città”, nel senso che l’approccio metodologico al progetto può essere lo stesso se si seguono alcune procedure concettuali e formali distribuite e risolte caso per caso.
Dispositivi oggi assolutamente impensabili.
Michetti studia a Roma, si laurea con Ludovico Quaroni. Questo maestro dell’architettura – che ci ha lasciato una bella chiesa a Francavilla, tanto per rimanere in un nostro ambito geografico – ha come assistente un giovane chiamato Manfredo Tafuri, che presto diventerà uno dei massimi storici e critici dell’architettura, morto alcuni anni fa e ancora indimenticato.
Nei suoi anni giovanili di insegnamento al Liceo Artistico di Pescara, Michetti trasferisce agli allievi, in quelli che hanno avuto la fortuna e la voglia di godere delle sue “performance” didattiche, una grande propensione verso la “forma”, la “composizione”, il “disegno”, ma anche una certa attenzione verso la teoria, la storia, la critica, la lettura dei testi, le riviste di architettura; Quaroni e Tafuri appunto.
“Il bello è difficile”, diceva Baudelaire, e Tafuri leggerlo a diciassette anni era davvero complicato, ma alcuni di noi leggevano “Teorie e Storie dell’architettura” nell’ultimo anno di Liceo.
Si capiva il trenta per cento ma l’incoscienza era incontenibile.
Si fa sempre in tempo a scendere in basso ma se si comincia dall’alto è sempre buona cosa.
Anche questo, per gli attuali giovani esordienti, è nella maggior parte dei casi, quasi impensabile.
Trenta, quaranta anni fa le nostre scuole d’arte erano straordinarie, alcuni insegnanti non erano meno preparati di quelli delle Accademie di Belle Arti o delle Facoltà di Architettura.
Michetti spalmava intorno a sé un’apparente creatività disordinata, irradiata anche dalla sua persona; distratto, sapientemente sgualcito nel vestire, costantemente spettinato.
Il suo era abito e habitat dell’architetto di allora, e che ci piaceva; era perfetto.
La sua auto sportiva, improbabile e “scomoda”, una Alfa Romeo GT 1300 Junior nata nel “66” (tutto si giocava in quel Junior, chiaramente visibile nel retro dell’auto!) era il prolungamento del suo studio con disegni, riviste, libri, tutti ammassati nei sedili posteriori e se ti dava un passaggio dovevi effettuare traslochi al momento, per sistemarti alla meglio in questa specie di studio viaggiante.
Formalista e grafomane, disegnava architetture meccanicamente anche quando parlava al telefono, riempiendo tutta una serie di foglietti con volumi platonici o di lettere dell’alfabeto che, formando magicamente una parola che il committente dall’altro capo del telefono perentoriamente ripeteva, venivano poi tradotte in volumetrie assonometriche o prospettiche, con ombre ed effetti tridimensionali.
Il suo strumento preferito era il “Caran d’Ache”, il famoso porta-mine svizzero, nero, con il tappino colorato, a scelta, nei tre primari, che si sfila per appuntire la “mina” in una pausa sapiente che dice al foglio: “sto per tornare”; con una ruvidezza, una sabbiatura, nella parte bassa dell’impugnatura, quale soluzione antisudore, quasi parafrasando Leon Battista Alberti circa la fatica del “disegnare” (del “costruire”).
Nel suo studio ho imparato a tirare una lunga linea al tecnigrafo con la grafite dentro il portento svizzero, mantenendo lo stesso spessore dall’inizio alla fine del tratto.
Il segreto sta nella rotazione; al movimento rettilineo deve corrispondere una rotazione costante lungo il percorso, con una tecnica prensile simile a quella cinese quando si mangia e si maneggiano le bacchette.
La punta la si fa sfruttando il supporto ed il percorso, (pensare l’efficacia) e lo spessore sarà uguale, per un po’; poi riaffilare, sostare, pensare e riaggredire il lucido.
La sezione orizzontale mediana, esagonale, della “Caran d’Ache”, si smussa nella parte finale in un tronco di cono aerodinamico. Inconfondibile è la marcatura con i famosi, minuscoli, tre pesciolini, in fila, saettanti verso il futuro.
Chi non sa guidare è inutile che si cimenti con una Porche; chi non sa disegnare tralasci la “Caran d’Ache”, è troppo accessoriata per lui.
Senza questa esperienza si avrà difficoltà anche con il “mouse”, che vorrebbe destreggiarsi con CAD e modellatori 3D.
Tra le opere realizzate da Michetti, quella che preferisco, è una scuola “dentro” una scuola.
Al Liceo Scientifico Galilei di Pescara, disegnato negli anni Trenta dagli architetti Mario Paniconi e Giulio Pediconi, piccolo capolavoro razionalista, Antonio Michetti, insieme ad Alfredo Trulli, ha affiancato un suo progetto leggero e trasparente, neo-organico con ossigeno tecnologico, lasciandosi definitivamente alle spalle la pesantezza anacronistica del cemento.
Un uomo eternamente giovane, anche se sornionamente tende a schernirsi ma, come sappiamo, questo appartiene al giusto ed equilibrato dosaggio narcisistico, utile al sostenimento ed alla durata.

pagine

Paolo Colacito. (uomini pescaresi)

lunedì, Gennaio 15th, 2007

Cenere, pazientemente depositata sulla superficie; muffe, combustioni, pagnotte di pane seccate e trattate con il verderame; l’aria, immessa dentro enormi polmoni di plastica che invadono spazi interni.
Immaginate tutta questa alchimia elegantemente confezionata in bacheche o scatole, risolta su tela o su tavola, in forma finita, in documentazioni fotografiche o video, seguendo un processo di fissazione di ciò che potrebbe evolversi all’infinito secondo spontanei processi naturali di trasformazione.
L’artista-alchimista, schivo e obreggiante, che fa tutto questo, si chiama Paolo Colacito.
Il rapporto previlegiato che questo artista ha scelto di intrattenere con l’”altro” si chiama tempo.
Al tempo è affidato la riuscita del suo lavoro, che si posiziona all’inizio, o alla fine, di una certa temporalità definita.
Il suo lavoro è un segmento finito di una vita organica impermanente e indefinita.
La cenere forse verrà prodotta da lunghe sere davanti a un camino; il pane, probabilmente autoprodotto, con la sua ferita centrale come un taglio di Fontana realizzato dal forno e dal lievito, è rivestito dalla nebulosa che si spruzza sulla propria vigna, rendendolo bronzo ossidato.
Stiamo allora parlando anche della sua casa, a Montesilvano, del suo studio, di quella che una volta era campagna e che lui accudisce ancora oggi, pur essendo urbanizzato e abitante di Pescara centro.
La sua vigna produce un ottimo vino, il Cerasuolo.
Materiale e tecniche del suo lavoro sono lì, a portata di mano, a portata di braccia; mensura umana, esistenziale, legata al lavoro, alla vita attiva.
La relazione con il tempo non riguarda solamente la creazione “quasi spontanea” delle sue opere artistiche ma anche di quelle “agricole”, non meno elaborate e complesse.
Meteorologia, fasi lunari… ; un artista della vita activa.

Paolo Di Pietro. (uomini pescaresi)

lunedì, Gennaio 15th, 2007

Parlare di Paolo Di Pietro vuol dire parlare di una famiglia, di tanti fratelli, accomunati da un fondo comune di intelligenza, acutezza, e grande spirito critico, estesi in zone persino eccessive di lucidità; “dispendio”, spreco analitico che va a costituire quella Pescara parallela e umbratile poco visibile, ma molto profonda e fondativa.
Anche se, attualmente, i Di Pietro rappresentano una diaspora geografica, sempre pescaresi restano.
I Di Pietro sono accomunati anche da una “r”, “moscia”, che arrota le parole, affila i pensieri, stilizza la dialettica.
Sono forse memorie francesi, o italianamente mediate da antichi itinerari parmensi, non mi è dato per ora sapere ma mi cullo nell’immaginazione e mi piace pensarla così.
Paolo Di Pietro non ha solo rappresentato la condivisione dell’architettura e del design, dell’arte e della critica d’arte e architettonica, delle battaglie sindacali e politiche nella sinistra, ma anche della psicoanalisi, della psichiatria e dell’antipsichiatria, cercando insieme in queste discipline una qualche risposta a tutta una serie di complessità del vivere quotidiano.
Laing, Cooper (l’ex sfascia-famiglie), Basaglia, Schatzman, Bettelheim, Foucault, circolavano regolarmente a cena o sul tavolo da disegno.
Il mondo relazionale intorno a Di Pietro riesce ad armonizzarsi anche nelle inevitabili ed epocali crisi familiari, ove vengono predisposte nuove ricomposizioni; equilibrio e civiltà hanno sempre la meglio, mentre la circolazione delle eventuali caselle vuote si sostanziano in nuove mappe esistenziali, rimesse continuamente in gioco sotto il segno dell’autenticità.
Professione e vita, deontologia professionale ed etica dell’esistenza, in Paolo Di Pietro, sono inscindibili.
Per questo la sua migliore opera risiede nella sua dimora.
Un architetto che si fa un autoritratto architettonico (come un odierno e reincarnato Adolf Loos). Come farebbe un pittore, imprimendo nella tela il proprio volto.

corso manhoné

domenica, Gennaio 14th, 2007

flaiano al mare

Essere Ettore Spalletti. (uomini pescaresi)

domenica, Gennaio 14th, 2007

Le persone famose acquistano col tempo un’aura tutta particolare; una certa luce pare avvolgerli. Fama li rende poi poco accessibili, almeno per noi mortali. Paradossalmente ad un eccesso di presenza mediatica sembra corrispondere una ineffabile volatilità, ed un vago senso d’immortalità. Se abbiamo poi la rara fortuna di una qualche prossimità fisica, essi ci appaiono eterei, angelici fantasmi, come fossero impastati con sostanze diverse dalle nostre.
Ho conosciuto e frequentato Ettore Spalletti quando era pre-famoso, dunque mortale, nella fine degli anni Settanta del secolo scorso, e mi chiedo se le mani premonitrici del successo lo stavano già felicemente massaggiando.
Devo ammettere che sì, i segni c’erano tutti.
Gesto, eleganza ed originalità d’abito, stile di vita, frequentazioni, bellissime ed originalissime donne oscillanti tra fascino delle tenebre e luce spirituale, sfondo teatrale della dimora sempre generosamente aperta agli amici; atelier di squisito interior design con punte di décor cromaticamente minimalista, costumanze sempre perfettamente integrate; giornate programmate con equilibrati contrappunti e giustappunti, studiati imprevisti e sovrapposizioni; un certo utilissimo ecumenismo – forse di poca fatica ma sempre riccamente costellato da acutezze e definizioni appropriate – semplicità come scarnificazione dello sforzo sempre domato e tenuto sotto il controllo stilistico.
Un dandy nella secessione del dandysmo.

“Dotato – come ha scritto Bruno Corà – di una buona tempra fisica soleva trascorrere in operosità piena l’intera giornata così che il riposo notturno giungeva a rinsaldare un corpo già integro e soddisfatto. Nonostante il lavoro lo assorbisse fortemente, la sua vita di relazioni non fu per questo meno intensa. Provvisto di un’ampia schiera di amici, ciascuno di raggiunta solidità nel proprio ambito, trascorreva con loro ogni momento libero, ogni ora che le pause di creazione dell’opera gli consentivano. Eguale attenzione riservò alla bellezza: la grazia di ogni creatura sembrava disporsi naturalmente al suo apprezzamento ed egli ne esaltò le doti godendone appieno.”

La sua pittura e la sua scultura sono il suo perfetto autoritratto; un quasi nulla.
Max Stirner, però molto leggero e con frequentazioni termali.
Alla sofisticata progettazione di una esistenza così concepita deve, quasi necessariamente, corrispondere un senso artistico vuoto, invaso capace di assorbire e accogliere qualunque cosa purchè abbia, infine, il timbro inconfondibile di una estetica del vuoto.
I due pesi, la vita e l’estetica degli oggetti prodotti, poggiati nella bilancia, sono assolutamente interscambiabili ma devono tuttavia rispettare leggi fisiche di equilibrio delle masse, pena il sospetto di inautenticità.
L’autenticità dell’oggetto banale, nel suo vuoto di senso, è autenticato dal gesto esistenziale che deve mimare il vuoto anche con la parola, con la frase spaesata e spiazzante, come nel personaggio del film “Oltre il giardino”; Ettore Spalletti è in grado di farsi vuoto, oltre che rappresentarlo.

Le antenne sono verticalmente sensibili e prensili nel captare la stratificazione di senso del contemporaneo (politica, ideologia, religione, guerra, business, conflitti mimetici, competizione, e poi storia globale e locale, strategie dell’esserci, marketing) ma, nel monitor, vedremo sempre la soluzione orizzontale del teorema, che si presenta come un soporifero acquario che ha assorbito e attutito il rumore del mondo, e che ci ipnotizza calamitando il nostro sguardo, come in una musica ambientale di Brian Eno; le sue sono opere – acquario che potrebbero curare nevrosi; custodiscono terapie riabilitative, forse potrebbero arricchire progetti di consulenza estetica per l’ibernazione verso un futuro migliore, vuoto, affrancato dai conflitti, ma che, almeno per ora, non esiste se non nella testa di Spalletti.
Ma il mondo vuoto dentro la sua testa convince.
Mi pare, se non ricordo male e potrei persino sbagliarmi, che Spalletti sia stato chiamato a realizzare in Francia un obitorio. Una congiunzione di senso così perfetta è molto raro a trovarsi, in un artista.
L’aspetto concettuale della questione è meno semplice di quel che si crede.
Ettore Spalletti rappresenta bene il nostro desiderio; quello di cancellarci, sparire.
Persino un flusso d’oriente lavora per lui, alimentato dagli imponderabili affluenti della new-age, forse a sua insaputa, e che gli conferiscono, suo malgrado, il sigillo della sincerità taoista. Tempo fa, a Pescara, nella grande piazza del centro, che dimentica se stessa autocancellandosi facendosi anch’essa vuoto in attesa di destini imperscrutabili, avevo notato un messaggio pubblicitario che comunicava l’attesa di un’opera di Spalletti.
La promozione sintetizzava, in una frase, l’amore dell’artista verso la città.
Come si può contestare l’amore? L’amore è, diciamolo, disarmante.
Puoi dominare lo spazio con arroganza o sapienza politica ma, se il gesto è ammantato d’amore non puoi difenderti. Spalletti è disarmante con il suo amore per l’altro, io, tu, voi, noi. Quest’uomo, credo, vuole amarci sul serio. Ci minaccia con il suo amore.
Abituati come siamo a difenderci dalla violenza e dall’odio, siamo deboli, e indifesi, di fronte all’offerta d’amore.
Mentre il sistema dell’arte ci perquisisce con l’amore, io, uomo inattuale, anacronisticamente mi dibatto tuttora tra conflitti e irrisolutezze.
Sono uomo antico, forse solo uomo.
Spalletti, è homo artisticus.

Uomini siffatti hanno il dono dell’essenzialità, anche in versioni retrodatate, e di conseguenza il passato biografico acquista un nuovo significato, più brillante.
Credo sia stato un nostro bravo e famoso cantautore, Claudio Baglioni, a dire che se hai un buon presente anche il tuo passato ha un certo valore.
Ettore Spalletti assomiglia in qualcosa a Claudio Baglioni, anche riguardo ai segreti dell’autoconservazione fisica. Sono persone nate per durare.
Credo si possa affermare senza nessuna difficoltà che Spalletti sia il Baglioni dell’arte contemporanea, con i dovuti riguardi, naturalmente, alle differenze espressive e di linguaggio.
In una intervista si può, con grande sicurezza e scioltezza, ricordare esordi e tappe di formazione (condite naturalmente da periodi di difficoltà e piccoli disagi che non guastano mai, come in certe pietanze appena appena arricchite con peperoncino, ma in modo assai equilibrato, da piacere a tutti), ci si autocostruisce insomma qualche piccolo mito di fondazione, anche se i testimoni di quel passato, che forse ora non hanno un buon presente, rimangono allibiti; non possono dire nulla pena l’accusa di desiderio mimetico (detto, in forma volgare, invidia).
Purtroppo, nelle città di provincia, per quanto affette da manìe di grandezza, l’uomo che passa dal “locale” all’”internazionale” non può che alimentare, in forme esponenziali, quel desiderio.

Una buona carriera va sempre valutata attingendo alle pieghe più benevole del nostro sguardo. Ironia, perplessità, critica e humor ne fanno parte, naturalmente; come è sempre stato.

domenica, Gennaio 14th, 2007

orecchio alato

Franco Summa. (uomini pescaresi)

domenica, Gennaio 14th, 2007

Franco Summa è sempre stato al di sopra della sua pittura. Franco Summa è sempre stato al di sotto della sua pittura.

No, non spaventatevi, non vi si vuole praticare una tortura ma, più semplicemente e svagatamene, verificare se le due proposizioni, opposte e speculari come in uno specchio, siano entrambe vere. Ci proverò. Intorno alla metà degli anni Settanta del Novecento Franco Summa era vitale e creativo pressappoco come lo è tuttora. Ricordo una sua mostra a Pescara ove l’artista esponeva quadri di forte intensità cromatica, con una tecnica, che lo rese tra l’altro piuttosto famoso, che mutuava l’occhio fotografico in quello pittorico ma in maniera molto distaccata dalla moda Pop. Le immagini rappresentavano la sua città, Pescara, vista da angolazioni originali e spaesanti; le soluzioni compositive quasi precipitavano nell’astratto, tanto la “riconoscibilità” era distanziante. Nel vernissage, l’artista aveva invitato un Assessore che introduceva l’opera esposta e le tematiche in essa contenute e, bisogna riconoscere, il dibattito che ne seguì anticipava alcune problematiche che son venute fuori con maggiore chiarezza solo qualche anno dopo; l’ambiente, l’assetto socio-urbanistico, la qualità architettonica, l’inquinamento visivo. Tuttavia la parola dell’”impegno” sociale lasciavano del tutto indifferenti i suoi quadri che se ne stavano sornionamente e aristocraticamente appesi al muro della galleria, godendosi una vita autonoma tutta loro. In particolare, un quadro mostrava la spiaggia con gli ombrelloni in un gioco di ombre e di luce solare, risolte in un’accesa bicromia, e nella loro bellezza segnalavano più degli altri il sertirsi orfani di senso, volendo semplicemente, orgogliosamente, dichiarare il loro “formale” ed estetico esserci nel mondo. Suo malgrado, Summa è homo aesteticus. Allora, perché invitare un “politico” a parlare d’arte? Perché spiegare un quadro, svelandone le intenzioni, ed esprimere in fondo una totale sfiducia nell’osservatore e sulle sue capacità di disvelamento e di libertà di analisi? Le risposte possono essere molteplici. Le sintetizziamo in alcuni punti. Primo: In quegli anni l’impegno sociale e politico era quasi un obbligo e l’ideologia serpeggiava sia nelle forme alte che in quelle più miniaturizzate dei rapporti interpersonali; una scelta ideologica era necessaria, pena la sopravvivenza stessa in quel mondo così strutturato, fatto di relazioni illusorie quanto pesantemente reali. Secondo: Franco Summa ha avuto una formazione umanistica; si è formato e laureato con Giulio Carlo Argan. Le sue mani tecnologico-artigianali sono impastate sì di colore, ma gli occhi guardano ai classici. Quella mostra pescarese non si rivolgeva ad un pubblico ma al Principe, e ai politici amministratori che, ormai, avevano sostituito, per lui, quel referente opaco e instabile rappresentato da compratori o collezionisti. Summa ha sentito ipersensibilmente la perdita di autorità dell’artista (la morte dell’arte) e ne ha rivendicato la presenza in un nostalgico, eroico, appassionante sogno rinascimentale. Ma siamo in una città di provincia del XX secolo, non a Firenze.Vorrei ricordare in proposito un’altra mostra di questo dinamico artista svoltasi in quegli stessi anni, all’Hotel Esplanade di Pescara, ove venivano esposti ritratti degli uomini illustri della città.L’Hotel Esplanade, per interderci, è un po’come il Grand Hotel di Rimini, stesse caratteristiche, lo stesso mare, stesso prestigio ma meno kicht, meno “felliniano” per intenderci. I “guru” della nuova Facoltà di Architettura all’epoca alloggiavano lì; entravano spavaldamente in Loden e scarpe Clark con il codazzo di fanciulle adoranti che, pur femministe, avrebbero volentieri lavato loro calzini e mutande e chissà cos’altro ancora. In questo Hotel, Summa esponeva questi ritratti, che venivano venduti a prezzi bassissimi, “politici” si diceva all’epoca. All’opera in esposizione veniva volutamente decretata una “sprezzatura” dal punto di vista del mercato, evidenziando invece un meccanismo che oggi chiameremmo mediatico. Il valore non risiedeva nei quadri ma nel glamour sollecitato dall’operazione. All’artista non interessava certo vendere il quadro, al di sotto persino delle “spese” d’opera, ma “vendere” – in senso ancora “rinascimentale” – se stesso, proporsi dunque alla pari con gli “illustri” cittadini, come un novello Leon Battista Alberti, e in questo, dobbiamo ammetterlo, nella scelta del luogo e del tema, Franco Summa è stato anticipatore di un sogno audace e intelligente. Terzo: Franco Summa ha sempre custodito, e ben espresso, una certa vocazione pedagogica- educativa. La sua esperienza di insegnamento ne è la prova. La sua metodologia didattica, sensibile memoria dell’oggettività tramandata dalle scuole europeee, Bauhaus in primo luogo – altri insegnanti ne parlavano ma lui metteva in gioco Paul Klee e Joannes Itten sul serio nella didattica quotidiana – imponeva un’impostazione metodica e scientifica; la soggettività era tenuta sotto sospetta osservazione.Infatti, tra i suoi allievi, prediligeva più la diligenza che il talento. Quarto: Franco Summa è, come tutti gli artisti di valore, grandemente narcisista. Nonostante la sua metodologia didattica reciti il tramonto del soggetto, annunciando il nuovo mattino dell’operatore estetico-visuale assoggettato alla nuova razionalità, mentre il suo lavoro si nutre di agganci appigli e rampini nel sociale, quasi volesse sprofondare in esso, il suo gesto, contrariamente, è di purissimo individualismo, con vaghi e lontani echi futuristi. Devo confessare che questa contraddizione, ammesso che me la si lasci passare, è ciò che apprezzo di più di questo artista e che me lo rende affascinante. Ognuno è quello che è; non tutti oggi hanno il coraggio di essere qualcosa. Con persone così limpide, chiare nella loro complessità e contraddittorietà e persino nei loro tratti più, diciamo, antipatici, è molto più facile stabilire le coordinate terrestri dentro le quali con-vivere o sopra-vivere. Aderire od opporsi è il gioco di una comunità che comunque partecipa. Forse era questo il sogno della polis di Franco Summa. Sogno infranto e perdente. Vincono oggi l’indifferenza e l’indifferenziato. Ma i suoi quadri, pensati al di sopra della pittura, ormai lavorati dal tempo, possono apparire al di sotto della narrazione ideologica, e guadagnarci. Ecco perché il suo lavoro può, alternativamente, essere al di sopra o al di sotto delle proprie intenzioni. Pittori così, capaci di salire su uno sgabello in un giorno qualsiasi per farsi ascoltare, facendosi scultura parlante su di un piedistallo, dubito ce ne saranno ancora.

martedì, Gennaio 9th, 2007

Flaiano

Elio Di Blasio. La penombra. (uomini pescaresi)

lunedì, Gennaio 8th, 2007

La creazione di forme proviene sempre da una interiorità.
Le opere assomigliano ai loro creatori e i modelli preesistono all’invenzione.
Le donne di Picasso erano già cubiste, bisognava solo tradurle. Lui forse le aveva già “scomposte”, al vivo.
Potrebbe trattarsi di un dato somatico, un tratto dell’anima, un autoritratto distribuito in tipi, un carattere geografico o terra di appartenenza, un paesaggio interiorizzato; introiezione incancellata come nel materno grembiule fiorito in Arschile Gorky. Si dipinge comunque sempre se stessi.
Se c’è un pigmento cromatico che possa definire una tersa marina adriatica o un cielo d’altopiano abruzzese questi sarebbero riscontrabili nella striata pozza azzurra degli occhi di Elio Di Blasio.
Lui guardava con questi occhi, già in fase fetale impastati con la stessa sostanza materiale e cristallina del mare e del cielo e, di conseguenza, dipingeva ciò che era già presente nel suo occhio.
Fortuna dei pittori!
Essi si sono definitivamente spenti, ad età veneranda, a compimento di una vita ben spesa, accompagnata negli ultimi anni dal meritato riconoscimento pubblico della comunità pescarese. Uomo di battaglie, alimentato da un sano furore polemico, capace di tenere il punto con caparbietà e tenacia ma consapevole di agire in un teatro – luogo virtuale della vita, ove le cose, anche drammatiche, accadono, ma pur sempre e solo sulla scena – viene fermato nella sua irruente vitalità da un ictus, intorno alla metà degli anni Novanta, menomandolo visibilmente in forma asimmetrica in alcune funzioni. Dopo tenaci sforzi riabilitativi riesce a mettere in scena anche questo accidente, lo “gioca” nella vita, grazie anche alla sua innata socialità ed alle presenze giovani e vitalistiche di cui ha sempre amato circondarsi e, non ultime, picassiane e affascinanti amicizie femminili che dimostrano come solo aprendosi alla propria componente femminea, attitudine accentuata negli artisti, si possono davvero amare le donne.
E, naturalmente, la pittura.
Appena qualche anno fa avevo scritto una pagina per lui:
«Elio è qualità gassosa, leggera, tendenzialmente instabile e impermanente. Elio è anche il nome greco della divinità solare, è la personificazione stessa del sole. Tuttavia, nonostante crediti patronimici così aerei, volatili e celesti, Elio Di Blasio è e rimane uomo e artista di terra. I suoi cieli sono trascritti stando ancorati nella solida e protettiva crosta terrestre mentre i suoi segni di terra non sono il risultato visivo dell’occhio alato ma semplicemente un distacco verticale, anch’esso radicato a terra, solo un po’ più alto, come può esserlo un colle, un altopiano, una montagna.
Alto-basso, verticale-orizzontale, superficie-volume, retta-curva, sempre con solide ramificazioni al globo terrestre, sono gli elementi di permanenza della ricerca di Elio; qualità che specularmente definiscono anche la morfologia paesaggistica dell’Abruzzo.
Il suo tragitto è sempre stato informato dal tentativo di sintesi delle diversificate e dialettiche forme terrestri, costanti, tendenti alla ripetizione differenziata.
Perchè se è vero che l’instabilità e l’impermanenza sono un tratto del suo onomastico è nella permanenza dei temi che il gioco investigativo si fa interessante e fissa uno stile.
Nel destino contenuto nel nome, tra l’effimero e la volatilità delle mode (la qualità gassosa appunto) e la luce abbagliante della vanità mondana (il dio Sole), Elio occupa un punto equidistante rappresentato dalla penombra. La durata.
Per paradosso tale condizione intermedia finisce per assumere nel tempo- in quello che si è speso personalmente ed in quello vissuto dai testimoni – una netta densità luminosa sua propria, la cui collocazione nessuno potrà più ormai rimuovere.
Oggi, con un pò di caratteristica impudenza e con spalle ancora forti, con i piedi saldi a terra e la testa verso il cielo, Elio tenta eroicamente di tener fronte, come meglio non si potrebbe, al terribile motto di Emil Cioran: “Occorre molta insensibilità per affrontare l’autunno”.»