I nostri auguri

Dicembre 22nd, 2010

Con l’anno nuovo questo Journal festeggia i quattro anni. Come augurare l’anno nuovo?

Con la politica. Italiana. È inevitabile. Ne siamo costretti. Ci fosse stato qualcosa di meglio, che non assomigliasse ad una fuga o ad una rimozione, avremmo parlato d’altro.

Avremmo parlato di futuro e felicità…

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marchetti italiana

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I Fascisti si sentono ringalluzziti ed il “ciarpame” è sempre all’attacco mentre  la latrina è ancora aperta.

Per 17 anni si è urlato al comunismo che non c’è per coltivare il fascismo che c’è.

E il fascismo che c’è non ha solo la faccia dell’ometto-orsetto caricato con batterie Duracel La Russa, o del’ipertiroideo Gasparri, o del razzista geneticamente ipoproteico Borghesio.

In questo fascismo, di cui deteniamo ancora i diritti, c’è la banalità del ministro Bondi la cui patografia ci indica quell’inclinazione da omosessualità irrisolta nei confronti del capo che lo acceca; un uomo vacuo ed insignificante che ci punisce con i suoi deliri.

Per le donne del governo lascio alla libertà interpretativa. Bondi (come altri) è uomo che non parla, è parlato.

La sensazione generale è che questi neo fascisti sono uomini screditati ed in bilico, loro stessi ne sono consapevoli, ma si rotolano nel fango con compiacimento contro di noi, e sono ancora lì, pur non avendo una maggioranza. Viviamo questo presente come se lo avessimo già alle spalle, ma senza un presente e, soprattutto, senza un futuro.

Riviviamo Bolzaneto di nuovo, contro i nostri ragazzi, ma all’aperto.

La risposta è sempre, e ancora, botte da orbi. L’ex fascista ora Presidente della Camera dei deputati, Fini, all’epoca dei fatti di Genova era ministro e sdoganava il manganello facile, le torture e i depistaggi, e le false prove.

La Polizia manifesta per le strade per avere più risorse ma vedi mai se facessero sciopero di manganello! E poi, come nel primo fascismo, ci sono i nomi ad indicare un destino: il capo della polizia si chiama Manganelli. Vocazione infantile?

Il centrosinistra e la sinistra si spappolano. Ci aveva lavorato a fondo Veltroni per anni, e ci è riuscito. Il nuovo Andreotti, D’Alema, sta dando  i colpi finali. C’è la speranza di un orecchino, che porterà probabilmente ad una gloriosa e romantica sconfitta, mentre la collana perde inesorabilmente le sue perle di vetro…

Ma nella sinistra la sconfitta trova una gloria compensatoria. Essa è rappresentata dalle cosiddette “primarie”. Questo tipo di votazioni “interne” ad un gruppo politico o ad una coalizione sono mutuate dagli americani e ricorda Alberto Sordi nelle fattezze intellettualistiche di Veltroni.

Si vince “intramuros” e ci si accorge che non solo non basta ma se ne ha anche paura. Come nel film “Un americano a Roma” la pappa americana non piace più e ci si ributta negli spaghetti. Veltroni, l’americano, ha affossato la sinistra democratica. Veltroni pensava di vincere con George Clooney e Bob De Niro in Italia, o grazie ai suoi romanzi e l’appartementino a Manhattan. L’americano ci ha affossato. Ha voluto gli imprenditori e l’imprenditore ci ha schiaffeggiato. L’americano dovrebbe scomparire, ma à ancora lì, come i vecchi democristiani (ma che bei tempi nel paradosso della storia!)… parla… parla… propone…

Tutto spinge verso Piazzale Loreto, nell’antropologia “italiota”, per poi ricominciare, in una coazione a ripetere.

Dov’è l’Europa?

Forse ci manca il pugilato. Sport scomparso. Ci manca l’agon. Quello vero, nella spettacolarità virtuale e catartica. Violento, ma con un suo stile e intelligenza. Ci mancano i grandi eroi del ring.

Buon anno dunque ai lettori  di questo Journal.

L’omino tenero e untuoso

Dicembre 6th, 2010

marchetti pinocchio

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Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perchè le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.

Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame.

Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati da grandi strisce gialle e turchine.

Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano in piedi degli stivaletti da uomo fatti di pelle bianca.

E il conduttore del carro?…

Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto, che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.

Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna, conosciuta nella carta geografica col seducente nome di «Paese de’ balocchi».

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Così milioni di italiani divennero asini.

Quando ancora erano uomini salirono entusiasti sul carro, non potendo resistere alla voce suadente dell’omino di burro: – Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu, in quel fortunato paese?

Grandi feste, affari sesso e “maffia” in quel bel Paese ove tutto era facile, bastava piegarsi alla vocina. E le bambine, soprattutto, erano il più bel trastullo.

Gli asini ricchi e gli asini imprenditori avevano riso delle barzellette del conduttore; ridevano e ridevano, applaudivano e applaudivano, credendo di trovarsi in “quel fortunato, paese”. Divennero ciuchini anche coloro che si indignavano e si scandalizzavano e salirono su un carro condotto da un omone più lungo che largo, secco come una noce, con una boccona che non rideva mai e una voce dura e seriosa.

Gli indignati facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti nel “Paese de’ tarocchi”.

– Voi che non arrivate alla fine del mese, voi che volete un futuro migliore, voi che non credete al “Paese de’ balocchi”, volete venire in quel fortunato paese?

Tra tanti somari non si riusciva più a distinguere i baloccanti dai taroccanti.

Pochi uomini avevano ancora orecchie umane ed erano passati al bosco, metaforicamente. Vivendo alla luce del sole, tra milioni di ciuchini, in una mimetica normalità, questi uomini raccontano ai ragazzi delle storie più belle di quelle raccontate dai conduttori di carri perchè non si parte mai, sembra di star fermi ma ci si muove, di poco, ma ci si muove, un pochino al giorno. In un anno questi ragazzi hanno fatto 360 passettini.

Walter Benjamin a Gerhard Scholem

Dicembre 3rd, 2010

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studio antonio marchetti.

Lettera a Gerhard Scholem

6 settembre 1917

Ho ricevuto il Suo saggio e La ringrazio. È ottimo. Per un’ulteriore elaborazione vorrei attirare la Sua attenzione sulle seguenti idee. Lei scrive: «Ogni lavoro è assurdo, se non mira all’esempio», «Se vogliamo fare sul serio: … oggi come sempre dobbiamo proporci di influenzare nel modo più profondo le anime degli uomini di domani – e nel solo modo possibile: con l’esempio». Il concetto di esempio (per tacere di quello di «influenza») deve essere completamente escluso dalla pedagogia. Da un lato implica il momento empirico, e, d’altro lato, una fede nel semplice potere (per suggestione o simili). Esempio significherebbe: mostrare come si fa una cosa, per convincere che essa è empiricamente possibile, ed esortare all’imitazione. Ma la vita dell’educatore non opera immediatamente, con l’esibizione di un esempio. Poiché devo essere molto sintetico, cercherò di spiegare che cosa intendo considerando la lezione. Lezione significa educazione attraverso la dottrina in senso proprio, e quindi deve stare al centro di tutti i pensieri sull’educazione. Il divorzio dell’educazione dalla lezione è segno della completa confusione che caratterizza tutte le scuole esistenti. La lezione è simbolica per tutti gli altri campi dell’educazione, poiché anche in tutti gli altri l’educatore è il docente. Ora l’insegnare può essere sì definito come un «imparare esemplare», ma subito si constata che il concetto di esempio è usato in un senso interamente metaforico. In verità il docente non insegna in quanto «fa vedere come si impara» [vor-lernt], non impara esemplarmente, ma il suo imparare si è in parte trasformato, gradualmente e interamente da sé, nell’insegnare. Dunque, se si dice che il docente dà l’«esempio» dell’apprendimento, si nasconde, con il concetto di esempio, la peculiarità e autonomia insita nel concetto di questo imparare: il momento dell’insegnamento. In una certa fase nell’uomo giusto tutte le cose diventano esemplari, ma in tal modo si trasformano internamente e diventano nuove. La visione di questo momento nuovo e creatore che si dispiega nelle forme di vita dell’uomo, permette di capire l’educazione. Ora vorrei che nella ulteriore elaborazione del Suo saggio Lei eliminasse il concetto di esempio, e anzi, che lo risolvesse in quello di tradìzione. Sono convìnto di questo: la tradizione è l’elemento in cui il discente si trasforma continuamente nel docente, e questo per tutta l’estensione dell’educazione. Nella tradizione tutti sono educatori ed educandi e tutto è educazione. Questi rapporti sono simboleggiati e sintetizzati dallo sviluppo della dottrina. / Chi non ha imparato non può educare, poiché non vede in quale punto è solo, e dunque comprende a sua maniera la tradizione e insegnando la rende comunicabile. Il sapere diventa tramandabile solo in colui che lo ha concepito come tramandato – e che diventa libero in una maniera incredibile. A questo proposito penso all’origine metafisica della barzelletta del Talmud. La dottrina è un mare ondoso, ma per l’onda (se la prendiamo come immagine dell’uomo) tutto sta nell’abbandonarsi al suo movimento, cosi da salire e rovesciarsi spumeggiando. Questa inaudita libertà del rovesciarsi è l’educazione, in senso stretto: della lezione, dove la tradizione diventa visibile e libera, si rovescia sotto l’impulso della sua pienezza di vita. Se è cosi difficile parlare di educazione, è perché il suo ordine coincide interamente con l’ordine religioso della tradizione. Educare è solo arricchire (nello spirito) la dottrina; solo chi ha imparato ne è capace: e quindi è impossibile, per coloro che verranno, vivere altrimenti che imparando. I posteri nascono dallo spirito di Dio (dell’uomo), salgono dal movimento dello spirito, come onde. La lezione è l’unico punto dove la generazione più vecchia si congiunge liberamente con quella nuova, allo stesso modo che le onde trapassando l’una nell’altra lanciano la cresta di schiuma.

Ogni errore in educazione è dovuto al fatto che si pensa che in ultimo i nostri discendenti dipendano in qualche modo da noi. Ora essi non dipendono da noi altrimenti che da Dio e dal linguaggio, in cui quindi dobbiamo immergerci, se vogliamo giungere a una comunione con i nostri figli. Gli adolescenti possono educare solo i loro simili, non i bambini. Gli uomini educano gli adolescenti.

Spero che questa lettera non impieghi troppo tempo per arrivare. Concludo con i saluti cordiali da parte di mia moglie e mia, ed esprimendo la speranza di sentire presto Sue notizie.

Suo Walter Benjamin

Paolo Uccello e la profanazione

Novembre 19th, 2010

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marchetti paolo uccello.

Sarà anche vero che gli Americani sembrano più superficiali di noi Europei. Se magari amano il melodramma italiano, lo amano nelle forme artistiche, non certo in quelle esistenziali in cui siamo campioni, fingendo di crederci. Quando, non sempre, le nostre “pesantezze” sono filtrate da loro – parliamo di intellettuali americani –  e ci vengono intelligentemente restituite, abbiamo l’impressione di respirare la nostra aria come fosse nuova. Quella distanza  aiuta a guardar-ci con occhi altrui ed è terapeuticamente utile. Anche quando i nostri migliori studiosi italiani soggiornano, o vivono, in quelle latitudini, offrono un’immagine di noi stessi più avvincente. È lo sguardo spaesato, forse melanconicamente attratto dall’origine, ma la ricerca ci guadagna. Leslie Fiedler, nato a Newark nel New Jersey, la stessa città natale di uno dei miei scrittori preferiti, Philip Roth, ha rappresentato, in un particolare momento della mia autoformazione, questo modo diverso, sciolto, ironico, discorsivo, colto e leggero insieme, che è lo stile americano, che svela cose a noi sfuggenti, presi come siamo da fobie di autoreferenzialità e autorispecchiamento, soprattutto quando siamo pescati dalla sindrome della rimozione e dell’autorimozione. L’ideologia molto frequentemente è stata la nostra trappola. E il nostro alibi. Freaks fu  un libro memorabile, storie di mostri e mutanti, storie dei nostri incubi e delle nostre paure, storia del diverso “dentro” la diversità. Ed è stato grazie a Fiedler che era nato, rinato, in me l’interesse per Paolo Uccello e per una sua opera in particolare: La profanazione dell’ostia. Nel 1987 si svolse a Firenze il convegno “Ebraismo e antiebraismo: immagine e pregiudizio” per iniziativa dell’Istituto Gramsci e nel suo intervento Fiedler, nel descrivere il proprio “pendolarismo” italiano, rievocava la sua meraviglia nello scoprire nel Palazzo Ducale di Urbino un dipinto di Paolo Uccello di argomento antisemita. «Eppure – dichiara Fiedler non senza ironia – a scuola mi avevano insegnato che Urbino, ancor prima di Firenze, era stata la culla della cultura rinascimentale… Nessuno comunque mi aveva avvertito che nel palazzo del Duca di Urbino si trova esposta con grande risalto un’opera di Paolo Uccello, una specie di minacciosa comic-strip, il cui primo pannello rappresenta un ebreo grossolanamente caricaturizzato mentre pugnala un’ostia consacrata che sprizza sangue sotto il suo coltello, mentre l’ultimo mostra l’arresto e l’esecuzione del perfido nemico di cristo fra la legittima soddisfazione di una folla di spettatori Gentili, alcuni dei quali chiaramente cortegiani.» (Ebraismo e antiebraismo: immagine e pregiudizio. Firenze, 1989.). Lo scrittore americano, nella sua memoria visiva, confonde la sequenza delle scene ma rimane quella definizione incisiva di comic-strip che, immersi come si era nella “seriosità” della storiografia dell’arte, tanto mi colpì. In effetti proprio di un fumetto si tratta. La pop-art era ormai sapientemente trapassata nell’osservazione di Fiedler ma dobbiamo tuttavia aspettare qualche anno affinché la Shoah venga narrata in un fumetto dal geniale Art Spiegelman con il suo Maus. Lo stupore di Fiedler attiene comunque all’idea di un Rinascimento luminoso, la luce che sconfigge le tenebre. Tra l’altro, due opere dell’Uccello, La Caccia notturna e la Profanazione di Urbino, sono di ambientazione notturna, pur  nel pieno della solarità rinascimentale. Una bella contraddizione per Fiedler, ma anche per noi. Nei miei anni di Liceo mi innamorai di Paolo Uccello, attraverso il manuale di Argan, per lo stile con cui aveva rappresentato il Drago, nella versione di Parigi, antesignano delle saghe di Tolkien, con le ali dipinte come gli aereoplanini dei cartoons, tenuto al guinzaglio dalla fanciulla – niente affatto prigioniera – come un animale domestico, mentre San Giorgio cava un occhio al nostro poveretto! Paolo Uccello mi faceva sognare, ma le regole disciplinari dello studio della storia dell’arte imponevano l’applicazione di schemi imparati a memoria e ripetuti alla perfezione. Via via che mi imbattevo nelle scene dell’Ostia trovavo considerazioni quali: “deliziosi quadretti”, “amene scenette”, “un vivace cromatismo in atmosfera fiabesca”, “opera affascinante d’ispirazione medievale”, mentre io mi ero trovato davanti, seppur tardivamente, e guardandola con occhi nuovi, grazie all’incontro casuale della breve notazione di Fiedler, una delle rappresentazioni più inquietanti del meccanismo vittimario e persecutorio della storia dell’Occidente, limpida e cristallina come un teorema. La critica e la storiografia d’arte di fronte alla Predella di Uccello ha sempre preferito volgere lo sguardo altrove, modulando nello specifico linguaggio tecnico-descrittivo tutta una serie di teorie sulla concezione dello spazio prospettico, facendo in tal modo corrispondere ad una sempre più accentuata oggettivazione razionale, condita con saporito perbenismo critico, una presa di distanza – se non vera e propria rimozione – dalla storia reale rappresentata nell’opera pittorica. In fondo il termine “fiabesco” si addice più alla “maschera” stilistica, che distanzia l’osservatore dall’orrore che in quelle scene si va consumando, mentre più sorprendentemente ci risulta l’aver preso l’opera a modello del Surrealismo, se non addirittura quale suo anticipatore. E ancora, stupisce che René Girard, uno studioso che su tali questioni ci ha quasi speso una vita, non abbia mai citato quest’opera dell’Uccello che è davanti ai nostri occhi praticamente da sempre, come la lettera del famoso racconto di Edgard Allan Poe. In questo perdurare del politicamente corretto, più di tante giornate della memoria che stigmatizzano l’urgenza di contenere una diffusa smemoratezza, e ancor più di tante retoriche solenni, pur animate da buone intenzioni sul ricordo della Shoah, vale una volta per tutte questa piccola tavola pittorica, capolavoro di Paolo Uccello a ricordarci la nostra Storia.

La “lezione” Kahlfeld a Cesena

Novembre 2nd, 2010

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Antonio Marchetti massa e potere.

“Gli architetti tedeschi ormai si dividono in due categorie: coloro che sono invitati dalla Facoltà di Architettura di Cesena e coloro che non lo sono”. Con queste parole l’architetto berlinese Walter A. Noebel testimoniava per la mostra di Petra Kahlfeld – professore invitato per l’anno accademico 2009-2010 – nella chiesa dello Spirito Santo nel centro storico cesenate.

Ad accompagnarmi in questa mostra è una studentessa del quarto anno che ha partecipato al corso della Kahlfeld che prevedeva un progetto di un nuovo mercato coperto per Rimini.

I progetti degli studenti sono raccolti in un catalogo “didattico”, qui presentato insieme a quello della mostra della Kahlfeld, dal titolo “Il ventre di Rimini” che sta, secondo me, tra Victor Hugo e Peter Greenaway.

La mostra di Petra Kahlfeld è allestita in modo convincente e didatticamente efficace, “tagliata” come si lavora un cristallo: freddo, trasparente e pieno di riflessi.

Il concept sta nella rappresentazione dell’architettura nel suo costruirsi e nella sua realizzazione, attraverso immagini del cantiere, algide tavole tecniche, modelli lignei impeccabili. Riecheggia in questa mostra “la fatica del costruire” dell’Alberti, titolo di un bel libro di Alberto Giorgio Cassani di qualche anno fa.

Immediatamente si coglie la presenza degli “old masters”, in primis Karl Friedrich Schinkel, citato graficamente persino nei piccoli riquadri prospettici che si insinuano tra piante e alzati.

I modelli in legno sono sistemati su parallelepipedi ad altezza “innaturale”, in un cono visivo inclinato dal basso verso l’alto, che accentua una sorta di “monumentalità“, quasi a contraddire, polemicamente, sia la scala umana che quella percettiva-realistica. Qui si comunica la “distanza”, non c’è nulla di “seduttivo” (seducono forse per la loro asetticità costruttiva), qui tutto è ricondotto alle ferree leggi di ciò che è utile al costruire l’architettura. Siamo lontani anni luce dai rendering fascinosi e dai modelli interattivi o dalle installazioni che trafficano con l’arte contemporanea delle ultime biennali veneziane. Ed è per questo che i modelli sono posizionati su basamenti alti; non puoi interagire, il punto di vista è programmato. Petra Kahlfeld presenta qui quattro progetti. Uno di essi, “piccolo”, si fa per dire, mi colpisce al cuore della memoria. Si tratta del nuovo ingresso della Filarmonica di Berlino di Hans Scharoun. Sembra che quell’ingresso ci sia sempre stato e Scharoun forse lo voleva proprio così. Bello! Qui però, il modello tridimensionale è costretto ad aprirsi ad una lettura meno “intrusa”, in un balzo creativo mimetico. Ma forse in questo c’è Berlino, a cui Kahlfeld aderisce in una fedeltà plastica oltre che filologica, contemporanea oltre che storica, innovativa oltre che tradizionale…

La conferenza, con vecchi e nuovi Presidi, ginnicamente ben risolta, trattandosi di figure di grande esperienza; studenti pochi, a parte quelli dentro il “ventre”. Completamente assente la città, con le sue istituzioni, e gli architetti; scarsi anche i professori, mi fa notare la mia giovane accompagnatrice.

Eppure questa mostra è una “lezione”, che piaccia o no, su come costruire nel corpo storico delle città. Questa mostra rivela inesorabilmente lo scollamento di questa Facoltà – ma il mio forse è giudizio affrettato – con il contesto sociale, culturale, economico e politico. Ma l’assenza “locale”, al di là dei limiti dell’università, si giustifica con l’assenza più generale ed inquietante di uno Stato e di un Governo che non pensa al futuro, tantomeno all’architettura.

La lezione Kahlfeld, lezione berlinese, è uno “schiaffo”.

Tuttavia non voglio certo diventare tedesco, a ciascuno la propria storia.

Cerchiamo di riprenderci la nostra.

Pittori riminesi. Orgogliosi con pregiudizio

Ottobre 18th, 2010

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marchetti per  pascali

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Il catalogo, il “turista”, lo riceve gratuitamente in edicola, insieme all’acquisto di un quotidiano. La Confartigianato, che promuove l’iniziativa, ha fatto le cose in grande, ed il sistema di diffusione è molto efficace, capillare. La mostra si svolge nel “cuore”, nell’agorà della città, con grande visibilità. Si tratta della mostra d’arte di pittori riminesi, dal titolo “rimin’essenza, le distintive genialità dell’orgoglio riminese”.

Ne parliamo per farla finita con lo snobismo ed il distacco cinico, con la malcelata superiorità culturale che alla fine rischia di dare una mano all’ “invasione degli ultracorpi”.

Questo catalogo (dalla grafica discutibile, è una “faccia”) non dovrebbe dispiacere alla cultura leghista, o forse, in queste latitudini romagnole, il leghismo antelitteram c’è da sempre.

I “pittori” esaltano il mito della piada, del mare e del pescatore, dell’ombrellone e dello stabilimento balneare insieme alle notti riminesi degli anni Sessanta mentre è  immancabile l’icona felliniana, con la solita sciarpa (che riscalda sempre meno e ci indebita sempre più). Il successo di “pubblico” è assicurato.

Ci si guarda allo specchio, uno specchio rassicurante, largamente condiviso.

L’intento “culturale” è orgogliosamente annunciato nel catalogo: “Impreparati, spaventati, frastornati e smarriti, ci sentiamo, a volte, come naufraghi alla ricerca di quelle sorgenti esistenziali che possono ancora farci ritrovare e rivivere l’eperienza rassicurante di essere attori e testimonianza di una storia e di valori comuni che continuano e si affermano nel tempo”.

Anche se questo testo di presentazione è costellato da termini come “forum”, “format”, “motore di ricerca”, “villaggio globale”, tale aggiornamento puramente di facciata non cancella l’idea che il “contemporaneo” qui è affrontato con spavento, smarrimento, naufragio. L’obiettivo, in realtà, di questa iniziativa è sinceramente spiegato dagli stessi promotori: si tratta del “core business” del fatturato turistico condito “anche” dalla cultura. Ma lo straniero si chiede: è questa ( o solo questa) la proposta culturale che dovrebbe accompagnare l'”offerta turistica”? Ad un avanzamento progressivo della cultura economica e dell’iniziativa d’impresa perchè si accompagna una cultura “regressiva”, di scarsa qualità (anche pittorica!) e squallidamente provinciale? Come mai c’è questa frattura che pare insanabile tra il ceto produttivo e professionale della città (“territorio” si dice per sancire ormai il lutto della parola “paesaggio”) e l’arte contemporanea? Le responsabilità sono solo da una parte o sono nella reciprocità? Se le estetiche e le tecniche di questi quadri “riminesi”, in forma traslata, si applicassero ai meccanismi economici saremmo ancora alla prima pensione Kelly di Tondelli (che non dispiace tra l’altro…).

Invece i “nostri” imprenditori” sono dinamici, ma arretrati culturalmente.

Le loro associazioni di categoria lo dimostrano.

In fondo portarsi a casa un quadro “riminese”, doc, costa pochi euro; l’arte, oltre ad essere facile, è anche molto economica e ci si affranca un pò di cultura nel salotto di casa, di fianco all’home cinema.

Amministratori e politici hanno responsabilità assai gravi. Assecondano, e pensano all’elettorato, regrediscono volentieri se occorre, ammesso che abbiano una qualche competenza di base sull’arte.

Gli stanieri tuttavia tali rimangono. Il loro voto è ininfluente.

Ogni tanto si promuove una conferenza sulla cultura, ove si recita il futuro ed il mea culpa sul contemporaneo.

Ma già domani, nell’indifferenza più appassionata, sorvolano su questo tema: “Piccole cose in città: non spaventati, oltre il naufragio, per nulla smarriti, fiduciosi nel materiale dell’arte guardiamo in faccia il villaggio globale e lo rappresentiamo, ci mettiamo in gioco, oggi; alla nostalgia preferiamo la melanconia di un futuro che è già stato”.

Questo ha un costo, in tanti sensi.

Comunione e Liberazione; con beneficio d’inventario

Ottobre 11th, 2010

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antonio marchetti carri neri

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Lo abbiamo scritto, qui, in diverse occasioni. Se c’è un luogo ove cultura e lingua deperiscono e rattrappiscono, questo luogo è la scuola.

Qui si parla una lingua che nel mondo esterno non esiste.

Tra le tante tipologie di disturbo che un “professore” (parola oggi improbabile) avverte, c’è una specie di  “double bind” dentro la  sconnessione.

Essere estranei al mondo quando si sta a scuola ed essere estranei alla scuola quando si sta al mondo.

Nel linguaggio ministeriale che annuncia i nuovi cicli scolastici si annida una patologia della lingua che ripete questa sconnesione, doppia, reciproca.

Sino ad oggi gli unici che accettano, secondo la mia esperienza, in maniera passiva e vocata, l’accoglienza acritica della malattia linguistica-ciulturale, sono coloro che aderiscono a Comunione e Liberazione.

CL aderisce in modo plastico al depauperamento della cultura e della lingua. Aderisce ai governi più discutibili e osceni. In fondo, sdoganata la morale (con la scoperta del moralismo negativo contemporaneo), azzerate le resistenze etiche, cavalcando i naufragi, oggi CL naviga nel mare aperto del possibile e del numero, della quantità.

Forse, alla fine, questa organizzazione, questa lobby, si troverà davanti, nella sua evoluzione, ad una verità inevitabile, ad una realtà semplice: solo business.

CL sarà questo: “è solo una questione di affari”.

Dal naufragio che alimentano possono essere estratti corpi-icone metastoriche a piacimento, in una cancellazione di differenze. Corpi-figure che fluttuano come pesci nel monitor-acquario del tuttouguale post ideologico.

CL, inoltre, lavora sul disagio, cresce sul disagio, “capitalizza” il disagio.

Il drappello sguinzagliato nelle scuole “statali” di insegnanti di religione, che vivono pienamente il “double bind” tra stato laico e sdoganamento vescovile (a cui spetta una valutazione “ad personam”) dimostra con chiarezza  l’anomalia di questa categoria di “lavoratori””. Se invisi alla Chiesa non perderebbero mai i loro diritti “laici” e di “graduatoria”  professionale, ma potrebbero insegnare materie scolastiche affini al loro percorso di laurea. È una specie protetta. Naturalmente ci sono eccezioni.

In un quinquennio delle medie superiori i nostri ragazzi che si avvalgono di religione, in generale, non sanno molto di antico e nuovo testamento, pochissimo di altre religioni. Questi docenti  laici di religione sono figure ambigue, giocano sul dilettantismo psicologico senza avere nessuna competenza, confessori laici nelle ampie praterie bisognose del contemporaneo: nuovi maoisti dopo il comunismo più devastante.

Costoro non insegnano religione, nella maggior parte dei casi. Sono i demagoghi contemporanei, lasciatemelo dire, ricalcano gli stessi passi fatali, con la stessa autoconvinzione cieca che la storia ci ha consegnato.

Stiamo parliando di una massa; i capi, la sanno più lunga.

Mentre si discute della scuola pubblica forse non ci si accorge che essa già comincia a non esistere più; un nuovo Stato è entrato nello Stato e lo svuota dall’interno. Vampiri robotizzati e indottrinati che pur muovendosi in  apparente ordine sparso si gettano sulla stessa preda. Sembrano invisibili, non accettano una netta riconoscibilità esterna e sembrano quasi offendersi quando li si definisce per quello che sono. Sono fluttuanti. Ricordano i film di Romero, ma  c’è poco da ridere.

CL si è buttata da anni anche nell’arte contemporanea. Ne riparleremo.

Per ora gli artisti ciellini cinguettano, ma marciano compatti, come se vivessero nel comunismo realizzato, diretti da direttori d’orchestra-curatori che hanno tentacoli nelle banche e nelle fondazioni. Hanno il loro business, che naturalmente si farà sentire.

Il segreto è nel loro essere massa d’urto: l’individualità è regolata dalla pluralità, la pluralità garantisce e protegge  l’individualità, anche se psicolabile: soprattutto se psicolabile e gestibile.

Singolarmente sono deboli, mimetici; nella pluralità micidiali.

Ricordano per certi versi la Decima MAS. Flottiglia.

Nuovi mondi… vedremo…

Simonetta Melani per Antonio Marchetti

Ottobre 10th, 2010

Marchetti City Paper

Simonetta Melani (il Grandevetro)

Con un aforisma a forma di bacio

Antonio Marchetti è cattivo.

Coltiva serpi in seno e sputa su dio e sui santi non dimenticando donne e bambini che sempre andrebbero salvati (e per primi).

Antonio Marchetti non ama il vicinato.

Attenti dunque ai vostri nani: li odia sia nel giardino che fuori come odia le petunie e l’uncinetto.

Ha un gran brutto carattere e ve ne sconsiglio caldamente l’amicizia.

Io l’ho preso per la coda e per ora regge, nonostante si dimeni (mai a destra, sempre a manca).

Io e lui ci assomigliamo poco, ma anche molto, e le mezze misure no, a noi non piacciono.

Un piccolo miracolo informatico ci fa ciechi e curiosi di noi. E noi ci facciamo dispetto nell’onorarlo.

Ci scriviamo e ci sorridiamo da anni (quanti?), ho letto i suoi libri e ne ho parlato, lui conosce la nostra rivista ed è un bravo collaboratore, ma mai ci siamo conosciuti di persona.

Confesso: ho diversi amici che amano scrivere aforismi ma non dirò i loro nomi.

C’è un principio di assolutezza nell’aforisma che lo rende scontroso e scorbutico per sua natura. Meglio evitare un incontro fra chi li crea, non credete?

Solo per insaporire gli appetiti dirò che uno sta fra pulcini, capre e cavoli, e pure non manca di un elefante; un altro sta con una gatta fra il Lungotevere e Keats come un dandy ramingo; uno – che se n’è volato via – riusciva a scrivere, pensate voi, un bouquet d’aforismi al mese, che fiorivano immancabilmente, nonostante Milano…

E’ così per questi asprigni scrittori: ognuno sceglie il luogo a suo vedere adatto per farsi il miglior cattivo sangue possibile, come ben si conviene a questo vizio.

Antonio sta fra il mare e il branco, in una striscia di cattività.

Lo vedo aggirarsi sulla spiaggia novembrina come un lupo solitario francese. Come uno di quelli che un tempo si sarebbero amati dicendoli maledetti ma che ora nessuno ama perché appunto maledetti.

È uno rimasto fregato dai tempi come molti della mia generazione (pochi sono infatti quelli che hanno conservato un’identità disdegnando il riciclo con candeggio che fa tanto figo in questi ultimi anni).

Lui è fedele alla linea che non c’è.

È un poeta della sensibilità. E la sensibilità non va più di moda. Va di moda il buon vicinato ma quanto a questo rimando sopra.

L’anima – in ragione della sua invendibilità – è salva.

Non credo di fargli piacere parlando d’anima. Ma la sua è come la mia un’anima carnale, organica, che ha bisogno di nutrirsi famelica e sta insonne a captare memorie e sogni. Guai a chi ce la tocca.

L’ho seguito. Mi son presa questa libertà.

Ama fare il flâneur sulla spiaggia deserta.

Si blocca adocchiando culi inesistenti, quelli passati già oltralpe dopo la bella estate riminese che lui a malapena grugnendo ha intravisto sfrecciare da una tapparella o attraverso il vetro di un birrino gelato al Moxie Bar.

Un sorriso dipinto fra una narice aperta e l’orecchio alato.

L’occhio va obliquo e se ne compiace.

Stiracchia le labbra.

Con l’occhio lungo disegna esatta la linea orizzontale, e così fa il cielo e dà una ragione al mare.

Dopodiché sbuffa dai denti un vapore, una nuvoletta, una di quelle che per incanto stanno su da sole fra la testa e l’azzurro.

E in questa ecco apparire per magia una serie di parole.

Ti avvicini, fai per leggere, ma lui, quasi t’avesse visto, scatta, l’acchiappa e se la mette in tasca.

E sornione, tra orme di cani e altre bestie venute ad annusare il salmastro invernale, finalmente, se ne torna a casa, gonfio come da una pesca fruttuosa.

Stende sul tavolo di cucina tutte le sue nuvole.

Se le guarda e ci ruzza come fa il gatto con la preda davanti al padrone.

Poi se le mangia.

Così nascono e muoiono i suoi aforismi.

O almeno così a me piace pensarlo.

Gli artisti si nutrono di sè, è risaputo ed è più quel che si metton dentro di quel che buttan fuori, ahinoi.

Delle nuvole resta solo l’osso. Ed è quanto ci dona.

È un dispetto nato quest’uomo.

E io lo amo così.

De gustibus.

Sarà che la carne attaccata all’osso qui in Toscana fa la bistecca, gli aforismi del Marchetti son gustosi e ci fanno gola.

Uno dietro l’altro vanno giù che è una bellezza.

Non fai a tempo di sorridere del primo che già ti acciuffa il secondo.

È un’ironia da retrobottega, riservata al buon palato.

E siamo pochi pochi.

Ma ci bastiamo.

Con questa assoluta certezza lo saluto e bevo ai suoi lavori in questa mostra, saluto i suoi amici che si fanno miei con l’augurio di star bene in compagnia di quell’acido dire che a noi tanto piace e che non si dà pace.

Baci Antonin.

Pochi. Troppi possono rimanere sullo stomaco.

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“Citycolor”, mostra nella galleria Percorsi/Arte Contemporanea. Rimini

Scrivere al mattino su Facebook

Settembre 23rd, 2010

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marchetti guardare con galileo.

Aprire un libro con un “torno subito”

Chiudere un libro e perdere la chiave.

I libri sostengono le pareti della casa.

Costeggio in bici l’Università. L’accumulo di sporcizia nella strada mi segnala che ieri abbiamo sfornato nuovi Dottori. La pasticceria all’angolo espone in vetrina certificati di laurea di cioccolata mentre sulle torte gli sposini sono sostituiti da “Dottore” e “Dottoressa”.

Ospedale di Rimini. Radiologia. La sala d’attesa per la mammografia ha le pareti tutte dipinte con smalto rosa, forse a ricordare che l’eventuale tumore sarebbe una lunga Notte Rosa per le donne.

Alfabeta 2.
Mi diceva con micidiale sarcasmo Gianni Scalia che la rivista Alfabeta nacque dall’incontro di un intellettuale ed un analfabeta. Dovrei pensare che la sua rinascita sia dovuta dall’incontro tra un intellettuale e due analfabeti. Il contrario?

“Ma il sale di una civiltà sono i vagabondi. Quando essi godono il rispetto che si deve al più debole è segno che il rispetto per le altre libertà funziona”.
Ennio Flaiano, Diario degli errori.

I poliziotti manifestano e scioperano. Facessero lo sciopero del manganello.

Sapevamo che gli anni Ottanta erano effimeri, questi sono efferati.

Leggere un best seller dieci anni dopo, o non leggerlo affatto.

Prima c’erano state già due sberle, quasi una dietro l’altra: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Con il 2 agosto fine dei giochi, maturità forzata.

2 agosto, Erano quasi le 11, abitavo a Fermo, scendo al bar per bere qualcosa di fresco ma alla radio c’è qualcosa che mi congela. L’angoscia sembrava non finire mai…

Traumi di gioventù. Per troppi anni la scuola mi tenne nascosta la morte di Leopardi, dovuta ad una indigestione di gelati.

Siamo nella merda sino al collo? Non ancora; diciamo le spalle?

Una richiesta al ministro della cultura Bondi: mi presti la sua testa che riposo qualche ora.

Le donne sono un mistero solo per uomini banali.

Le stagioni sono cinque. La quinta è quella in cui restiamo soli.

E il bavaglio? È in tintoria.

Una signora dal fruttivendolo:«Sono buone queste pesche?»
«Lei le mangi, se poi non le piacciono me le riporti».

Essere fuori logo.

Artisti internazionali, artisti nazionali, artisti regionali, artisti cantonali, artisti provinciali, artisti cittadini, artisti di quartiere, artisti condominiali, artisti da camera.

Parole provocatorie, intelligenti, colte, aggressive, polemiche, critiche, affascinanti…  se solo le avesse detto qualcuno con altro corpo, altra voce, altro volto, altro sguardo.

Mancava la forma.

Quando si legge una poesia la si sta scrivendo.

dovevo star fermo
quando ero mobile
muovermi
quando ero immobile
con tutti i gradini alle spalle
le infinite scale consumate
una porticina mi si apre

L’arte naviga su un fortunato equivoco.

Passa il tempo, gli anni scorrono, fischia il vento urla la bufera, il sergente è sempre sulla neve, Zivago ormai congelato urla ancora Tonja Tonja… Antoine Doinel è vecchio e gira da tempo film porno e Dio non ubbidisce più come una volta, Piazzale Loreto si avvicina le fosse Ardeatine si allontanano, le gallerie sono passaggi, nei musei discreti aperitivi, Linus ha perso la copertina…

Bonjour schifesse.

Lo storico distingue, l’intellettuale si indigna, l’ostaggio fa televisione, il coscienzioso chiede il parere altrui, la scrittrice si scandalizza, il giornalista denuncia.
Tutti uniti dallo stesso editore.

Son ritornati i sandali alla schiava. O le schiave coi sandali…

Il ministro dell’istruzione università e ricerca è audioleso.

Manganello e doppiopetto (e doppiomento).

Nata una nuova scuola, Liceo don Giussani.

Disoccupazione. C’è differenza tra farsi mantenere dalla famiglia e mantenere una famiglia.

Suoni di giochi antichi… la palla Yo-Yo Ma.

Il gatto è molto permaloso, ma gli passa subito.

Era appena ieri.

Gli artisti ciellini cinguettano.

Pedro adelante con juicio

Spiacenti, vedo una sgommata sull’asfalto, andavate troppo veloci; non era questa la lentezza. Siete pregati di tornare indietro e rifare tutto il percorso, lentamente, molto lentamente…

Al museo Madre di Napoli forse mancherà l’elettricità e la luce.
Recuperare Gaston Bachelard, “La fiamma di una candela”.
Mimmo Paladino potrebbe occuparsi delle scorte.
No steariche, no paraffina, solo cera d’api;
è solo un modesto consiglio per l’artista-magazziniere.

Finito l’intreccio tra mafia e politica.
La mafia “è” la politica.

Questo è il periodo dei bei tramonti, lunghi e melanconici, con il buio però quasi improvviso in certi luoghi

Putsch fallito ad Adro. Dopo un primo momento di disorientamento le camicie verdi si riorganizzano e tentano un golpe per via istituzionale

Mi piace a volte non veder commenti a certe mie cose. Credo sia un silenzio dialogante, una vicinanza, oltre FB e persino oltre l’FBI…

Come l’arte degenerata, come i francobolli sbagliati, i manifesti ritirati della mostra di Cattelan a Milano vanno a ruba. I “guardoni” di una volta… Milano città vintage…

Basta con il luogo comune che miss Italia vuol dire testa vuota. Testasecca.

eri, mi sono dimesso per un giorno.
Mi ero dimesso da me stesso.
Non avevo scelta…

Tutti partecipi.
Tutti distratti.

Il mondo di Alter

Settembre 11th, 2010

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antoniomarchetti variosondamestesso.

Non sarà certo Alter a scrivere la storia per te, non può arrivare a tanto, non c’era nel passato, non c’era nel remoto delle carezze e dei baci che non puoi ricordare.

Non c’era nelle fantasie delle favole, nei bisbigli notturni del conforto, nei giochi primordiali delle mani, nella custodia naturale del vivente.

Alter si è insinuato, con la maschera dell’amore, per riscrivere la tua storia, con passione distruttiva piuttosto che costruttiva. Alter non accoglie ma giudica e definisce, separa, taglia, riscrive come conviene al suo possesso. Possesso chiamato amore. Guarderai il mondo con gli occhi di Alter, e crederai che siano i tuoi. Alter consolida le tue crepe, è seduto sulla tua anima, con amore. Alter seleziona ciò che merita di essere ricordato e vissuto, e tu col tempo non saprai più qual’è la tua memoria e il tuo vissuto. Hai delegato ad Alter una negoziazione per te troppo difficile e faticosa, coinvolgente. Alter cancella le tue debolezze e ti introduce al mondo come in un nuovo esordio, non tuo, ma a cui aderisci affascinato. Lo sguardo di Alter ti convince: semplice, chiaro, evidente, oggettivo, freddo, distaccato, lucido, cinico. Alter ti mostra il mondo come non lo vedi tu. Ma il mondo, se hai deciso di non vederlo come lo vedi tu, è il mondo di Alter lavorato sul tuo impasto, sulle tue interrogazioni. Alter ha posto fine alle tue interrogazioni e  ai dubbi. Alter ha risposto a tutto, per te. Alter nasconde le macerie e ti mostra il mondo nuovo, un mondo libero dalle provenienze, dalle esperienze fondative, dall’infanzia, dai genitori, dalle storie e dalle saghe familiari. Tutto cancellato.

Alter è sempre presso di te, non ti lascia mai, ti ama, ma tu sai di essere solo. Meno solo oggi; più solo domani, quando Alter troverà un vivente più gustoso.

Quel giorno cercherai la tua casa.

Antonio Marchetti ©