Essere Ettore Spalletti. (uomini pescaresi)

Le persone famose acquistano col tempo un’aura tutta particolare; una certa luce pare avvolgerli. Fama li rende poi poco accessibili, almeno per noi mortali. Paradossalmente ad un eccesso di presenza mediatica sembra corrispondere una ineffabile volatilità, ed un vago senso d’immortalità. Se abbiamo poi la rara fortuna di una qualche prossimità fisica, essi ci appaiono eterei, angelici fantasmi, come fossero impastati con sostanze diverse dalle nostre.
Ho conosciuto e frequentato Ettore Spalletti quando era pre-famoso, dunque mortale, nella fine degli anni Settanta del secolo scorso, e mi chiedo se le mani premonitrici del successo lo stavano già felicemente massaggiando.
Devo ammettere che sì, i segni c’erano tutti.
Gesto, eleganza ed originalità d’abito, stile di vita, frequentazioni, bellissime ed originalissime donne oscillanti tra fascino delle tenebre e luce spirituale, sfondo teatrale della dimora sempre generosamente aperta agli amici; atelier di squisito interior design con punte di décor cromaticamente minimalista, costumanze sempre perfettamente integrate; giornate programmate con equilibrati contrappunti e giustappunti, studiati imprevisti e sovrapposizioni; un certo utilissimo ecumenismo – forse di poca fatica ma sempre riccamente costellato da acutezze e definizioni appropriate – semplicità come scarnificazione dello sforzo sempre domato e tenuto sotto il controllo stilistico.
Un dandy nella secessione del dandysmo.

“Dotato – come ha scritto Bruno Corà – di una buona tempra fisica soleva trascorrere in operosità piena l’intera giornata così che il riposo notturno giungeva a rinsaldare un corpo già integro e soddisfatto. Nonostante il lavoro lo assorbisse fortemente, la sua vita di relazioni non fu per questo meno intensa. Provvisto di un’ampia schiera di amici, ciascuno di raggiunta solidità nel proprio ambito, trascorreva con loro ogni momento libero, ogni ora che le pause di creazione dell’opera gli consentivano. Eguale attenzione riservò alla bellezza: la grazia di ogni creatura sembrava disporsi naturalmente al suo apprezzamento ed egli ne esaltò le doti godendone appieno.”

La sua pittura e la sua scultura sono il suo perfetto autoritratto; un quasi nulla.
Max Stirner, però molto leggero e con frequentazioni termali.
Alla sofisticata progettazione di una esistenza così concepita deve, quasi necessariamente, corrispondere un senso artistico vuoto, invaso capace di assorbire e accogliere qualunque cosa purchè abbia, infine, il timbro inconfondibile di una estetica del vuoto.
I due pesi, la vita e l’estetica degli oggetti prodotti, poggiati nella bilancia, sono assolutamente interscambiabili ma devono tuttavia rispettare leggi fisiche di equilibrio delle masse, pena il sospetto di inautenticità.
L’autenticità dell’oggetto banale, nel suo vuoto di senso, è autenticato dal gesto esistenziale che deve mimare il vuoto anche con la parola, con la frase spaesata e spiazzante, come nel personaggio del film “Oltre il giardino”; Ettore Spalletti è in grado di farsi vuoto, oltre che rappresentarlo.

Le antenne sono verticalmente sensibili e prensili nel captare la stratificazione di senso del contemporaneo (politica, ideologia, religione, guerra, business, conflitti mimetici, competizione, e poi storia globale e locale, strategie dell’esserci, marketing) ma, nel monitor, vedremo sempre la soluzione orizzontale del teorema, che si presenta come un soporifero acquario che ha assorbito e attutito il rumore del mondo, e che ci ipnotizza calamitando il nostro sguardo, come in una musica ambientale di Brian Eno; le sue sono opere – acquario che potrebbero curare nevrosi; custodiscono terapie riabilitative, forse potrebbero arricchire progetti di consulenza estetica per l’ibernazione verso un futuro migliore, vuoto, affrancato dai conflitti, ma che, almeno per ora, non esiste se non nella testa di Spalletti.
Ma il mondo vuoto dentro la sua testa convince.
Mi pare, se non ricordo male e potrei persino sbagliarmi, che Spalletti sia stato chiamato a realizzare in Francia un obitorio. Una congiunzione di senso così perfetta è molto raro a trovarsi, in un artista.
L’aspetto concettuale della questione è meno semplice di quel che si crede.
Ettore Spalletti rappresenta bene il nostro desiderio; quello di cancellarci, sparire.
Persino un flusso d’oriente lavora per lui, alimentato dagli imponderabili affluenti della new-age, forse a sua insaputa, e che gli conferiscono, suo malgrado, il sigillo della sincerità taoista. Tempo fa, a Pescara, nella grande piazza del centro, che dimentica se stessa autocancellandosi facendosi anch’essa vuoto in attesa di destini imperscrutabili, avevo notato un messaggio pubblicitario che comunicava l’attesa di un’opera di Spalletti.
La promozione sintetizzava, in una frase, l’amore dell’artista verso la città.
Come si può contestare l’amore? L’amore è, diciamolo, disarmante.
Puoi dominare lo spazio con arroganza o sapienza politica ma, se il gesto è ammantato d’amore non puoi difenderti. Spalletti è disarmante con il suo amore per l’altro, io, tu, voi, noi. Quest’uomo, credo, vuole amarci sul serio. Ci minaccia con il suo amore.
Abituati come siamo a difenderci dalla violenza e dall’odio, siamo deboli, e indifesi, di fronte all’offerta d’amore.
Mentre il sistema dell’arte ci perquisisce con l’amore, io, uomo inattuale, anacronisticamente mi dibatto tuttora tra conflitti e irrisolutezze.
Sono uomo antico, forse solo uomo.
Spalletti, è homo artisticus.

Uomini siffatti hanno il dono dell’essenzialità, anche in versioni retrodatate, e di conseguenza il passato biografico acquista un nuovo significato, più brillante.
Credo sia stato un nostro bravo e famoso cantautore, Claudio Baglioni, a dire che se hai un buon presente anche il tuo passato ha un certo valore.
Ettore Spalletti assomiglia in qualcosa a Claudio Baglioni, anche riguardo ai segreti dell’autoconservazione fisica. Sono persone nate per durare.
Credo si possa affermare senza nessuna difficoltà che Spalletti sia il Baglioni dell’arte contemporanea, con i dovuti riguardi, naturalmente, alle differenze espressive e di linguaggio.
In una intervista si può, con grande sicurezza e scioltezza, ricordare esordi e tappe di formazione (condite naturalmente da periodi di difficoltà e piccoli disagi che non guastano mai, come in certe pietanze appena appena arricchite con peperoncino, ma in modo assai equilibrato, da piacere a tutti), ci si autocostruisce insomma qualche piccolo mito di fondazione, anche se i testimoni di quel passato, che forse ora non hanno un buon presente, rimangono allibiti; non possono dire nulla pena l’accusa di desiderio mimetico (detto, in forma volgare, invidia).
Purtroppo, nelle città di provincia, per quanto affette da manìe di grandezza, l’uomo che passa dal “locale” all’”internazionale” non può che alimentare, in forme esponenziali, quel desiderio.

Una buona carriera va sempre valutata attingendo alle pieghe più benevole del nostro sguardo. Ironia, perplessità, critica e humor ne fanno parte, naturalmente; come è sempre stato.

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