Marina Mannucci in quattro numeri

.

antonio marchetti madre.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Polifonia del femminile.


Numero uno

Sono ormai 12 anni che tutte le mattine prendo la corriera per recarmi a scuola, ieri con il grembiulino bianco e il fiocco, oggi con i jeans e la felpa con il cappuccio. Quando è ancora buio, ed il freddo irrigidisce anche i pensieri, sono tra le prime a salire, tra i posti ancora vuoti scelgo il penultimo in fondo a destra, lì, anonima, passo inosservata, il cappuccio sempre sollevato, volgo lo sguardo fuori dal finestrino. Finita la scuola risalgo sulla corriera, verso le quattro e mezza del pomeriggio giungo alla mia fermata, una sporca pensilina sotto l’arco di un cavalcavia. M’incammino verso casa, alzo il volume del lettore mp3 e sistemo gli auricolari, il clacson delle automobili in sottofondo. Nelle pozzanghere formatesi nei crateri d’asfalto della strada dissestata si riflettono ed ondeggiano le sagome dei grattacieli. Da un  distributore dismesso annuso l’odore rancido della nafta, manca poco, sono quasi arrivata.Tra i letti della mattina da rifare prima che tornino a casa gli altri, l’acqua da mettere a bollire, è presto sera e si consuma in fretta la cena. Mentre loro in cucina litigano sul canale della televisione da guardare, mio fratello è assorto in un videogioco; da sotto il materasso sfilo le bombolette spray, le infilo nello zaino ed esco, tiro su il cappuccio e mi dirigo verso la stazione.Finalmente è mercoledì sera, alle 20 e quarantotto arriva un convoglio dall’Austria e non posso perdermerlo, mi hanno detto che c’è una carrozza che non è whole car, devo arrivare per prima, il mio bombing deve essere rapido e incisivo e questa volta non sarà necessario crossare il lavoro delle altre crew. Ho comprato anche dei nuovi tappi e ho uno skinny che dovrebbe dare un getto sottile perfetto e senza sbavature.

Numero due

Questo piccolo scrittoio in un angolo del soggiorno è l’unico spazio mio di tutta la casa.Quand’ero adolescente è morta mia madre, era stanca di vivere.

A ventiquattro anni è morto anche mio padre, ed io, sposata da poco, aspettavo un figlio. La rabbia ha sempre ostacolato la mia creatività, mi ha reso fiacca, incapace di ridere e divertirmi, se avessi saputo scegliere avrei impresso sul mio volto smorfie meno gravi, i miei occhi lampeggerebbero invece di perdersi vuoti verso un passato che mi si è rovesciato addosso senza che avessi il tempo di sceglierlo. Mio rifugio ed unica certezza, gli astri, legati alle azioni dell’uomo in una catena sottile di azioni e reazioni. Su di me incombe Antinous, costellazione vicina all’equatore, una delle sue raffigurazioni che lo vedono intrappolato fra gli artigli dell’Aquila mi accompagna dalla nascita, ma continuo a sperare che un giorno riuscirò a liberarmi dalla presa lacerante di quelle sgrinfie. Ora malgrado io ben sia consapevole che “è vano sperare quell’eternità che non è accordata né agli uomini né alle cose e che i più saggi negano persino agli dei…”, m’ immergo nelle effemeredi e studio per ore i temi natali, ed attraverso quest’indagine scrupolosa di rappresentazione di valori ed idee raggiungo l’estasi nel constatare ogni volta che tutte le varie psicologie e filosofie possibili si uniscono in un solo quadro perché il cosmo contiene tutti i possibili punti di vista.

Numero tre

Sulla credenza appoggiato alla vecchia radio il libro consunto delle ricette, pagine e pagine scritte con una calligrafia i cui segni sono cambiati nel tempo, ogni tanto uno schizzo a margine, pochi sono i fogli rimasti ancora da annotare. Con la mano abbasso la maniglia della porta che si affaccia al giardino, è autunno, mi soffermo ancora un attimo ad osservare il prezioso taccuino. Ogni ricetta racchiude i segreti della mia anima: quest’antica alchimia che trasforma la materia in cibo, mi ha permesso di assecondare i miei slanci creativi per tutta la vita. Quando tutti dormivano, mi sollevavo e scalza scendevo in cucina, aprivo la credenza e ricoprivo il tavolo delle ciotole colme di spezie, accendevo il fuoco e preparavo la trippa con il melograno, il battuto di manzo con cous cous di castagne, guancetta di vitellone con composta di topinambur e ristretto di parmigiano. Il lavello si riempiva di traballanti stoviglie unte, da detergere prima che sorgesse il sole. Mia madre era una Sinti-Drabarni, ed era nata ai margini della città, vestiva con lunghe gonne fiorite, e quando la carovana ripartiva le ruote del carro scricchiolavano. Giunti alla nuova destinazione, il gruppo si accampava e mio padre la sera suonava il violino. Io correvo libera e spettinata.Un giorno poi è finito tutto e ci hanno fermati, ci hanno imposto una casa.Sono sopravvissuta. Ed è stato allora che è iniziato il mio duetto clandestino dei sensi con il cibo, è stata la zuppa scacciapensieri che mi ha salvato dall’annientamento, ho staccato il grembiule dal chiodo della cucina e ho ritrovato l’antica ironia del vivere, del divorare il cibo e la vita. Nutrendo gli altri mi sono divertita a pungolare i loro desideri, attraverso i procedimenti scientifici della materia, uniti all’impulso dell’immaginazione. La notte trasformavo e di giorno poi creavo le giuste atmosfere, imbandivo la tavola, discreta ma sensuale e la illuminavo con candele; l’odore delle spezie si diffondeva, il sedano conferiva alla mia pelle un odore eccitante e a fine pasto mi sedevo tra gli ospiti: con un piccolo cucchiaino d’argento versavo fine cioccolato nelle tazze di caffè.

Numero quattro

Questo sabato dovrebbero venire a trovarmi i miei figli, devo assolutamente ricordarmi di fargli sistemare meglio la poltrona sotto la finestra, da sola non riesco più a fare certi sforzi ed i miei occhi deboli hanno sempre più fame di luce. Ho iniziato un pizzo e non riesco ad andare avanti; se mi dimentico di chiederglielo dovrò aspettare un mese intero prima che tornino, forse due. Il cuscino del tombolo è appoggiato sul telaio ed anche tutte le coppie di fuselli, ma le mie mani faticano a stare ferme a lungo, è da ottant’anni che cuciono, tessono, intrecciano, decorano e ricamano. Quando a quattordici anni rimasi incinta, ero sola, mi diedero ricovero le Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue, all’interno del convento avevano istituito una “scuola-laboratorio” imparai a ricamare; le suore guardavano il mio bambino. A Sacile le ragazze avevano solo due possibilità: imparare a ricamare o apprendere il mestiere di sarta. Questo lavoro è stata l’unica mia risorsa per sopravvivere e per mantenere il mio primo figlio, poi anche la mia seconda figlia; durante la guerra ho cucito centinaia di divise. Con le altre ricamatrici, sedute lungo la via su piccole sedie impagliate, tra lini e rocchetti di sete, i pezzi delle nostre vite si intrecciavano con i fili sui canovacci del telaio; il tempo impiegato a ricamare non ci è mai stato sufficientemente ricompensato, ma non avevamo alternativa ed era l’unica cosa che sapevamo fare. Col filo realizzavamo opere d’arte, e tenevamo unite le nostre vite, il telaio tutto sommato ci aiutava a dimenticare i nostri guai. Le nostre mani hanno creato preziosissimi ricami anonimi che palazzi lussuosi ora custodiscono con cura.Speriamo che sabato i miei figli si ricordino di passare a salutarmi.

©Marina Mannucci


Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.