LO SGUARDO È SEMPRE ALTROVE.

Girotondo.
La vertigine parossistica posizionale è un disturbo provocato dallo spostamento di quei minuscoli sassolini che abbiamo all’interno dell’orecchio e che regolano il nostro equilibrio. Alcune volte le donne si divertono a spostarceli.
Per rimetterli a posto ci vogliono procedure molto precise.
Il girotondo è escluso. Ti sbianchi in volto, ti roteano gli occhi, brividini freddi ti assalgono, ti viene la nausea, ti gira la testa e vorresti vomitare.
Se a questo disturbo periodico va ad aggiungersi una scotomia congenita ne viene fuori che la tragedia dell’infanzia si prolunga in quella dell’adulto: non poter partecipare al girotondo, al cerchio sacro dell’appartenenza.
Vi lascio immaginare la condizione di forzata marginalità del vertiginoso e la sua ovvia distanza da pratiche ginniche rotatorie intorno a un centro.
Sarà uomo decentrato, eccentrico, squilibrato, suo malgrado.
Per fortuna i girotondi vanno via via scemando, pare infine che si è caduti tutti giù per terra.
Si può dire che in quell’invidiabile legarsi teneramente per mano circolarmente si guarda l’altro se stesso, quello che abbiamo di fronte nell’altro punto della circonferenza.
Ci si appartiene appartandosi, pur affermando il proprio esserci nel mondo.
Ci si ri-guarda, nel senso francese; si è anche persone di riguardo, ragguardevoli, vip, importanti adulti-bambini che disegnano il cerchio della separazione-appartenenza in fuga dalla noia impotente del quotidiano.
Ci contiamo, ci riconosciamo, tautologicamente tracciamo la presenza.
Il giro intorno al mondo è il mondarsi dal mondo, pulizia radical-mondana che ci affranca dalla fatica del mattoncino giornaliero da mettere uno sull’altro, faticoso e poco spettacolare. In questo gioco lo sguardo si rivolge allo specchio, sguardo del noi che esclude voi.
Del girotondo un amico mi offre una versione della filastrocca meno consolatoria:
Giro giro tondo
Che ci faccio in questo mondo?
Ci faccio quel che posso
Con il mio groppone addosso
Quando non ne posso più
Piglio le gambe e mi butto giù.

Schivare.
Elias Canetti inizia il suo Potere e sopravvivenza con questa parola: “schivare”.
“Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano”, esordisce il premio Nobel bulgaro.
E prosegue: “Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, poiché non siamo all’altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo aver a che fare con altri pericoli di ignota entità. Anche quando ci imbattiamo in questi ultimi, e accade puntualmente, essi posseggono pur sempre il brillìo delle cose improvvise e uniche.”
Ma lo sguardo dello schivatore non è quello dell’indifferenza o della passività.
Al contrario, i protagonisti dell’altrove sono agìti da passione e attivismo ed irradiano il “brillìo” delle cose lontane, che dobbiamo condividere con loro, schivando così anche noi l’obsoleta vita quotidiana.
Bastano poche settimane di frequentazioni di quell’altrove a noi sconosciuto che, con sicurezza e competenza, ci viene proposto un libro scritto alla velocità della luce .
La matassa complicata del qui, ormai fuori moda, è sbrogliata e semplificata nella narrazione dell’altrove, che ha sempre il “brillìo” del nuovo, con un azzeramento alle spalle.
Lo sguardo dei compaesani rivolto alle case perdute che scivolano giù con la frana è troppo prossimo a noi, son fatti troppo vicini, come i morti ammazzati a Napoli o le limitazioni della nostra libertà di cinque minuti fa. Ed è pur sempre intorno al mostro quotidiano che si erigono i nuovi templi della bellezza e dell’arte.
“C’è una netta tendenza a buttarsi verso le cose più lontane, subito, e a trascurare così tutto ciò contro cui si va continuamente a sbattere”, scrive Canetti.

Farsi guardare.
Il ritornello sociologico lo conosciamo tutti.
C’è oggi un’angoscia che attraversa le persone rappresentata dal rifuggire dall’anonimato. Tutti vogliono apparire, non c’è più nessuno seduto in platea.
L’”idiota” del XX secolo, Andy Warhol, lo aveva predetto. Ben prima di lui lo aveva capito l’europeo Duchamp, riscattando il banale e l’ovvio sbattendocelo davanti agli occhi.
È del tutto evidente che se tutti appaiono e vogliono farsi vedere e ascoltare c’è una inevitabile deprivazione dell’intelligenza. Diventeremo tutti stupidi ma senza passare prima dall’ufficio di Bartleby.

Amore.
Anche nell’amore si tende a schivare. Non avevamo dato troppa importanza, o avevamo rimosso, quel dettaglio irritante, quella frase rivelativa, quella inopportuna invasione del nostro spazio, quando avevamo uno spazio. Così, schivando e rivolgendo lo sguardo al futuro che aggiusta sempre tutto, ci ritroviamo a pagare il presente. Separazioni, divorzi, avvocati per aver schivato l’insignificante dettaglio dell’esordio e non essersi fidati di se stessi e dei propri occhi.

Posta elettronica.
Mai mandarsi una foto quando si scambiano e-mail. Rimanere così, sconosciuti allo sguardo, dirsi cose intime e segrete ma salvarsi dallo sguardo.
Dopo, se ci si è guardati solo una volta, ci si scriverà solo banalità giustificatorie, per nascondere la delusione degli occhi che dicono tutto e subito.

Libri.
Al leggere si preferisce rileggere, ognuno si difende come può. Lo scrittore Alberto Boatto oltre ad essersi occupato di Duchamp, Pop Art e di ghigliottine si è interessato anche di sguardi. Il suo libro nei lontani e primi anni Ottanta, Lo sguardo dal di fuori è da rileggere.

Scuola.
Gli unici che possono sottrarsi dallo sguardo panottico sono gli studenti, proprio perché si parla molto di loro. Documenti, relazioni, acronimi surrealisti, griglie valutative, percorsi formativi, obiettivi prefissati e raggiunti, sportelli didattici, sostegni psicologici e grafologici, recuperi in itinere, corsi di sostegno, progetti di accoglienza, orientamento pre-post-diploma, corsi extrascolastici, educazione sessuale, non fanno altro che privilegiare gli studenti che possono permettersi vite clandestine e segrete e salvarsi dalla perlustrazione incessante del totalitarismo educativo. Essi sono già scomparsi, la macchina scolastica può continuare a funzionare da sola, virtuale com’è.
La scuola è una simulazione, laboratorio avanzato ove si allestisce il nulla ecumenico in atto, mentre gli studenti sono i nuovi eroi dell’invisibilità.

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.