Il poeta

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La casa la scelsi per il giardino. Non potevo usufruirne ma, sotto i sette piani, quel miracolo di verde nel centro storico del borgo mi offriva all’alba il canto degli uccelli e la notte il concerto dei grilli. Accoglievo dopo anni di dura vita nomade con tredici traslochi sul groppone (al primo posto tra le cause di nevrosi) questo luogo silenzioso. Per un poeta, che arrischiava versi nelle fogne più rumorose delle periferie in cui ha abitato, cazzarola, venire qui e ascoltare il silenzio e il vociare quotidiano, giù sotto, dell’umano trascorrere del tempo era per me quasi impensabile (nu casine veramende). Il rumore, non era rumore, era musica conosciuta e i cinesi insediatisi qui prima di me davano, nella loro diversità, a me stesso una minore estraneità. Un gruppo di peruviani avevano aperto un locale all’angolo della strada e qualche volta la sera andavo a bere qualcosa. Sino alla mezzanotte una lieve musica saliva alla mia finestra mescolata a voci di una lingua sconosciuta, ma chi li capisce a chistaccà. Mi accorsi, la notte, che i miei versi guadagnavano qualcosa, traducevano dal rumore e scrivevano il silenzio, che scassiamento. Nel ristorante cinese andavo spesso, sti cazze de raviule ò vapore li spaghitte de soja de sorete dintrucule, bevevo una birra dai peruviani, birremmerde v’acciddeattuttequante iatevenne che c’avetescassateocazze. Poi venne una comunità di pakistani, numerosi, silenziosi, gentili, invisibili, tutti giovani maschi, afammoccheachitammurte.
Io non possiedo la grandezza di un Kavafis, né nella varietà degli uomini da portarsi a letto, preferisco le donne non fatemene una colpa, sa da chiavà dintra a fiche, né nella purezza del verso. Sono forte nella selezione delle partners e forse debole nella poesia, lo ammetto. In comune con l’alessandrino c’è che anch’io sono un’impiegato statale, stu sfigatemmerde. Sotto di me esiste una piccola Alessandria ma le miei giovani le cerco altrove. Non mi reputo un poeta da meticciato, perdonatemi.
Un mattino ci fu una retata, un trambusto sotto casa, e vidi quanti erano i pakistani: ventisette.
Come potessero vivere in quel buco di casa, vera fogna del centro storico, nu merdaie, tollerata e accettata, non lo capivo. Capivo però che alcuni proprietari con l’immigrazione facevano soldi e magari poi erano quelli più razzisti e fascisti in pubblico, nazisteducazze, o magari di sinistra in una loro naturale affaristica doppia natura ove l’ideologia è sempre buona tirata fuori dal congelatore per mascherarsi, ma li soldi sò soldi pure pe lu comuniste a no!? e, naturalmente, tutti, di mestiere facevano gli avvocati.
Dei pakistani mi dispiace, uscivano il mattino presto, con delle cartellette di loro cose da vendere, e tornavano la sera, infilandosi furtivamente nel portoncino. Lu lager, ce vò lu lager.

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