Luciano Fabro, artista senza copertina

Fabro

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Quache giorno fa è scomparso Luciano Fabro, un artista notevole, complesso, “difficile” – ma non era Baudelaire a dire che il bello è difficile? – e polemico, di vecchia scuola. Ricordo una sera memorabile a Ravenna, all’inaugurazione di una sua antologica nella bellissima Loggetta Lombardesca, in cui l’artista, molto insoddisfatto di una frase stampata nel retro di copertina del suo sostanzioso e bel catalogo, custodiva l’ingresso facendo entrare solo coloro che si prestavano a staccare questa famigerata copertina conservando il tomo nudo. Nella collana che documenta le mostre di quegli anni Ottanta a Ravenna, e che ho in fila in una sezione della mia biblioteca, si distingue un “fuori collana” marrone scuro.
Fabro è l’artista senza copertina.
Alcuni anni fa lo chiamai al telefono per chiedergli dettagli più approfonditi su di una sua vecchia opera, Lo spirato, e che tra i tanti suoi lavori è quello che preferisco.
Molto gentile, piacevole; mi chiarì alcune cose e subito mi spedì una scheda ed una bella foto dell’opera alla cui realizzazione, mi pare, collaborò lo scultore Antonio Trotta (altro esperto di ciò che espongo più avanti).
Vuoto e assenze mi assillavano in quel periodo, e trovavo ne Lo spirato un paradigma perfetto.
La temperatura ideologica che avvolgeva quest’opera, realizzata alla fine degli anni sessanta, sembra ritirarsi in una permanenza estetica. Infatti, una generazione successiva la trova fresca e intatta come una giovane pianta in un giardino già fiorito. Il vuoto, qui, è rappresentato dalla parte mancante di un corpo la cui “presenza” è intuibile dal panneggio, che rivela una “presunta” sua metà, visto che nulla ci impedisce di credere che anche ciò che appare sia un vuoto, una illusione, un trucco. Ma in questo caso non è in gioco il solo vuoto fisico, quello “visibile”, il non c’è che c’è, ma anche il vuoto, piuttosto taoista, che l’artista fa dentro di sé, attraverso la rinuncia all’abilità, il sottrarsi dall’esecuzione, il distacco dalla tecnica. Nella dichiarazione che Luciano Fabro a suo tempo mi aveva spedito, a proposito di questa scultura marmorea, si rintracciano parole quali indifferenza, anonimo, neutro, rinuncia.
Vi è spiegata la delega ad altri dell’esecuzione, chiedendo ad artigiani la fattura di un panneggio tecnicamente neutro, non inquinato da sentimentalismi espressivi o particolari effetti plastici dominati da destrezza e seduzione. Forse Fabro cercava un panneggio da obitorio.
In tale contesto freddo e oggettivante il vuoto appare per quello che è: un vuoto di senso. Questa di Fabro è opera presente, trasparente ed evidente, come può essere appunto una cosa appena sparita. Proprio come lui.

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