Simonetta Melani per Antonio Marchetti

Marchetti City Paper

Simonetta Melani (il Grandevetro)

Con un aforisma a forma di bacio

Antonio Marchetti è cattivo.

Coltiva serpi in seno e sputa su dio e sui santi non dimenticando donne e bambini che sempre andrebbero salvati (e per primi).

Antonio Marchetti non ama il vicinato.

Attenti dunque ai vostri nani: li odia sia nel giardino che fuori come odia le petunie e l’uncinetto.

Ha un gran brutto carattere e ve ne sconsiglio caldamente l’amicizia.

Io l’ho preso per la coda e per ora regge, nonostante si dimeni (mai a destra, sempre a manca).

Io e lui ci assomigliamo poco, ma anche molto, e le mezze misure no, a noi non piacciono.

Un piccolo miracolo informatico ci fa ciechi e curiosi di noi. E noi ci facciamo dispetto nell’onorarlo.

Ci scriviamo e ci sorridiamo da anni (quanti?), ho letto i suoi libri e ne ho parlato, lui conosce la nostra rivista ed è un bravo collaboratore, ma mai ci siamo conosciuti di persona.

Confesso: ho diversi amici che amano scrivere aforismi ma non dirò i loro nomi.

C’è un principio di assolutezza nell’aforisma che lo rende scontroso e scorbutico per sua natura. Meglio evitare un incontro fra chi li crea, non credete?

Solo per insaporire gli appetiti dirò che uno sta fra pulcini, capre e cavoli, e pure non manca di un elefante; un altro sta con una gatta fra il Lungotevere e Keats come un dandy ramingo; uno – che se n’è volato via – riusciva a scrivere, pensate voi, un bouquet d’aforismi al mese, che fiorivano immancabilmente, nonostante Milano…

E’ così per questi asprigni scrittori: ognuno sceglie il luogo a suo vedere adatto per farsi il miglior cattivo sangue possibile, come ben si conviene a questo vizio.

Antonio sta fra il mare e il branco, in una striscia di cattività.

Lo vedo aggirarsi sulla spiaggia novembrina come un lupo solitario francese. Come uno di quelli che un tempo si sarebbero amati dicendoli maledetti ma che ora nessuno ama perché appunto maledetti.

È uno rimasto fregato dai tempi come molti della mia generazione (pochi sono infatti quelli che hanno conservato un’identità disdegnando il riciclo con candeggio che fa tanto figo in questi ultimi anni).

Lui è fedele alla linea che non c’è.

È un poeta della sensibilità. E la sensibilità non va più di moda. Va di moda il buon vicinato ma quanto a questo rimando sopra.

L’anima – in ragione della sua invendibilità – è salva.

Non credo di fargli piacere parlando d’anima. Ma la sua è come la mia un’anima carnale, organica, che ha bisogno di nutrirsi famelica e sta insonne a captare memorie e sogni. Guai a chi ce la tocca.

L’ho seguito. Mi son presa questa libertà.

Ama fare il flâneur sulla spiaggia deserta.

Si blocca adocchiando culi inesistenti, quelli passati già oltralpe dopo la bella estate riminese che lui a malapena grugnendo ha intravisto sfrecciare da una tapparella o attraverso il vetro di un birrino gelato al Moxie Bar.

Un sorriso dipinto fra una narice aperta e l’orecchio alato.

L’occhio va obliquo e se ne compiace.

Stiracchia le labbra.

Con l’occhio lungo disegna esatta la linea orizzontale, e così fa il cielo e dà una ragione al mare.

Dopodiché sbuffa dai denti un vapore, una nuvoletta, una di quelle che per incanto stanno su da sole fra la testa e l’azzurro.

E in questa ecco apparire per magia una serie di parole.

Ti avvicini, fai per leggere, ma lui, quasi t’avesse visto, scatta, l’acchiappa e se la mette in tasca.

E sornione, tra orme di cani e altre bestie venute ad annusare il salmastro invernale, finalmente, se ne torna a casa, gonfio come da una pesca fruttuosa.

Stende sul tavolo di cucina tutte le sue nuvole.

Se le guarda e ci ruzza come fa il gatto con la preda davanti al padrone.

Poi se le mangia.

Così nascono e muoiono i suoi aforismi.

O almeno così a me piace pensarlo.

Gli artisti si nutrono di sè, è risaputo ed è più quel che si metton dentro di quel che buttan fuori, ahinoi.

Delle nuvole resta solo l’osso. Ed è quanto ci dona.

È un dispetto nato quest’uomo.

E io lo amo così.

De gustibus.

Sarà che la carne attaccata all’osso qui in Toscana fa la bistecca, gli aforismi del Marchetti son gustosi e ci fanno gola.

Uno dietro l’altro vanno giù che è una bellezza.

Non fai a tempo di sorridere del primo che già ti acciuffa il secondo.

È un’ironia da retrobottega, riservata al buon palato.

E siamo pochi pochi.

Ma ci bastiamo.

Con questa assoluta certezza lo saluto e bevo ai suoi lavori in questa mostra, saluto i suoi amici che si fanno miei con l’augurio di star bene in compagnia di quell’acido dire che a noi tanto piace e che non si dà pace.

Baci Antonin.

Pochi. Troppi possono rimanere sullo stomaco.

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“Citycolor”, mostra nella galleria Percorsi/Arte Contemporanea. Rimini

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