Damien Hirst e la “Vanitas”

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marchetti ligozzi.

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Tra le più belle vanitas sceglierei quella di Jacopo Ligozzi della collezione Lord Aberconway.

Questo Memento mori è rappresentato in maniera sublime e raccapricciante.

C’è, naturalmente, l’immancabile specchio. L’ultima vanitas, che ha fatto tanto scalpore, probabilmente è quella di Damien Hirst. L’opera ha trovato in Palazzo Vecchio a Firenze una collocazione più convincente e legata alla tradizione dell’arte, si presume. Ma anche più rischiosa.

Si tratta, come molti sanno, di un teschio rivestito da 8.601 diamanti per 1.106 carati.

Un Memento mori costosissimo, aggiornato alla contemporanea caducità della vita e al mercato artistico che la riscatta. Eppure, come per Cattelan, anche per Hirst non si parla di tradizione, ma di novità, o di tutte quelle noiose varianti trasgressive sempre in affanno che alimentano il sistema. Quest’opera, spesso, non viene annoverata nel genere delle vanitas, probabilmente per “spezzare” una continuità dell’arte, immaginando terremoti molto virtuali ed economicamente redditizi; al momento. Ma questo è altro discorso.

Damien vi contribuisce, forse fingendo inconsapevolezza: “Per molto tempo ho letto solo libri scientifici, volevo fatti. Non mi interessava la letteratura”, ha dichiarato in una recente intervista di Cloe Piccoli. Questo vale anche per la letteratura dell’arte, si presume.

Lo dimostra il titolo di quest’ opera: For the Love of God, che risulta alquanto banale rispetto all’impatto che l’opera dovrebbe provocare. Un  titolo molto global, buono per tutte le stagioni e geopolitiche connesse.

In queste incursioni Hirst sarà costretto prima o poi a studiare un pochino, ed interessarsi di letteratura (dell’arte), o affidarsi a consulenti più colti.

Hirst dà un valore autentico alla sua opera, vuole “fatti”. In Ligozzi la ricchezza è puntigliosamente dipinta ed un esperto potrebbe farne conto. Nel suo passaggio storico Hirst è costretto ad esibire ed usare “fatti”, il valore vero dei diamanti. Con un valore aggiunto: l’opera.

Forse Giancarlo Politi (enigmatico, ondivago ed intelligente direttore di Flash Art) scegliendo quale icona di augurio, per le feste e per l”anno nuovo, il teschio diamantato di Hirst, vuole indicare l’effimero dell’arte come nella vita. Chissà se è vero. Ci credo poco.. Siamo in un doppio gioco. Quello dell’arte.

Quella profondità nella storia europea, che aveva prodotto quel genere pittorico, oggi si dispone nella superficialità pubblicitaria. Un genere “mascherato” dall’ignoranza, con l’artista che ne sancisce la “casualità“. Non è un caso che Damien dichiari il suo “amore” per Warhol. Lo sapevamo.

Quello che non si accetta è il rattrappimento o il silenzio autocastratorio dei nostri saperi e delle nostre complessità critiche di fronte ad un’opera e ad un genere  che nel Seicento europeo era molto frequentato.

Che si collochi, almeno, il nuovo nella continuità-discontinuità, con qualche pensiero intelligente!

Ma, purtroppo, i “curatori” si sono sostituiti ai critici di qualche anno fa. All’intelligenza di un potere oggi abbiamo il servilismo stupido ad un potere, fondamentalmente analfabeta sull’arte.

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Hirst-Politi.

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Un commento di Rosita Lappi.


Il teschio di Hirst. Concordo sulla smemoratezza che aleggia sull’arte contemporanea, che si priva, per quello che sembra una snobistica estemporaneità concettuale, del sedimento storico e antropologico e quindi dello spessore concettuale delle opere. Quante si reggerebbero senza la superficiale e glamourosa girandola mondana del sistema dell’arte, a cui preme solo esporre il potere e fare girare dei soldi?

Qualcosa si, molto altro no.

Mi sarei fermata qui, persuasa che il tentativo di suggerire una vanitas oggi non ha più forza dichiarativa nè rituale, banalizzata dal frullatore mondano.

Ma ieri sera ho visto sul sito di La Repubblica un’altra opera diamantifera di Hirst, lavorata sul cranio di un neonato, con puntuale valutazione in soldoni. Dopo lo sgomento iniziale ho visto altro, qualcosa di ancestrale e primitivo rivestito di un abito luccicante e abbagliante, che quasi ne mascherava il senso. Ho pensato ai teschi Maya con gemme incastonate, ma prima ancora ai teschi primitivi su cui i sopravvissuti intervenivano con procedure di impronta per ricreare un volto, impastandoli di terra, dipingendoli, rivestendoli di nuova pelle come i crani sovramodellati di Gerico.

Il percorso è inverso, non un memento mori, con la morte che fa capolino nella vita, come nell’iconografia delle vanitas, ma la vita che ritorna a rivestire la morte, memento vitae, continua a vivere. Quell’idea dell’Uomo che “rumina la morte”, nella definiziaone di Paul Valery, fa pensare al bisogno di ruminare la vita, riimpastare e rivivificare la immota morte per fare della materia una sostanza viva, col ricreare un volto che colmi il vuoto della sua decomposizione e scomparsa.

Per Georges Didi Ubernann questo rilavorare il cranio implica una onnipotenza creatrice che rinnova il legame della morte con la vita, anche con funzione oracolare. Maschere funebri e reliquie devozionali, in diverse culture i crani parlavano, vaticinavano, diventavano il centro di funzioni religiose e rituali, scrigni di energia e potenza. Il rapporto tra forme artistiche e uso cultuale era preciso e dinamico. Oggi?

Oggi si è perso questo legame con il sortilegio dell’arte, tutto è reificato senza magia, senza spessore.

Cosa si può pensare del terribile autoritratto di Marc Quinn, fatto con pelle e sangue dell’artista tenuto refrigerato, e dunque potenzialmente vivente oltre la vita biologica del suo creatore, se viene disgiunto dalla angoscia ancestrale della morte come perdita irreparabile? Angoscia di perdita che millenni fa i primitivi hanno tentato di esorcizzare con la scoperta dell’arte.

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