Sofferenza a Fellinia

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Siamo al pronto soccorso dell’ospedale di Fellinia, in una mattina di un giorno estivo qualsiasi, non di un fine settimana (per fortuna); un giorno qualunque ove un milione e mezzo di persone circolano variamente in questa capitale del divertimento e della gioia. A fine estate gli amministratori-teatranti urleranno di gioia, contandone sei o sette milioni.
Là fuori le notti rosa e la vacanza, qui invece si soffre e si viene per essere assistiti, aiutati, alleviati, risanati.
Su dieci donne che tra qualche ora dovrà partorire otto sono turiste, venute qui in vacanza al nono mese, forse con auspici anagrafici tutti da decifrare.
Già si narrano saghe ove nella famosa notte rosa donne abbiano partorito nei prati.
L’ottimo personale medico e paramedico ti fa capire che solo le risorse umane, e professionali, riescono miracolosamente e generosamente a far funzionare una macchina che altrimenti potrebbe implodere da un momento all’altro.
Lo stesso spazio fisico è inadeguato: i corpi, distesi nelle lettighe, sono esposti allo sguardo, offesi nella loro dignità e nel loro privato più intimo.
Vedi un conoscente, ora fragile ed indifeso; gravi e meno gravi si alternano in uno spostamento continuo nel corridoio di pochi metri quadri tra intrecci di flebo tra familiari accusati di ostruire il passaggio e di ostacolare il lavoro sanitario.
Ma questi familiari sono lì per provvedere ad uno stato di necessità elementare: acqua, una bibita zuccherata, una coperta, spostare autonomamente un letto mobile per allontanarlo da una corrente d’aria, assistenza psicologica, conforto durante le lunghe ore di attesa, cinque, sei ore, e qualcuno preferisce andar via non potendone più.
Questa macchina parallela riesce a fatica a funzionare, così come continua a funzionare quella del piacere, la grande Fellinia a poche centinaia di metri da qui.
Questo pronto soccorso non è in grado di accogliere la città del dolore, è, oltre ogni evidenza, assolutamente inadeguato. È come un fortilizio in miniatura che osa fronteggiare una megalopoli vera e potenziale che lievita in questi mesi estivi.
Sapere che ogni giorno, ogni notte, si possa dire: “anche oggi ce l’abbiamo fatta” (vale per un turno) non è confortevole, ma è solo il linguaggio autosalvifico e parziale di una emergenza dopo ventiquattro ore di emergenze ormai quasi incontenibili.
Qui non siamo in un luogo ove vige l’armonizzazione e la razionalità, ma in quello del limite, del border-line, ove si congiungono le fatiche dei medici degli infermieri e di tutti gli altri (tutti quelli che ti “salvano”, indipendentemente dalla qualifica) e la estenuante attesa dei sofferenti, soprattutto gli anziani, insomma noi, io, tu; tutti siamo anziani, è solo un problema temporale.
Alla città del piacere, che accoglie turisticamente il buco del culo del mondo, non corrisponde una adeguata accoglienza del dolore.
Siamo in un luogo, stamattina, che rappresenta la nostra verità, nuda, reale, nera, dura, secca.
Da questa postazione, ne siamo certi, tutto è così poco rosa!

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