Lo sceriffo

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Non lasciatevi influenzare dal cognome che porta: Gentilini. Gli uomini tradiscono spesso i propri onomastici. Lui è soprannominato lo sceriffo.
Eppure ricordo tanti films americani di sceriffi giusti, magari con storie complesse alle spalle, melanconici nevrotici e misteriosi che accompagnavano l’esercizio della giustizia con il buon senso e l’esperienza. Non ricordo nel grande cinema sceriffi urlanti e bisognosi di affermare la “tolleranza zero”, non ne avevano bisogno. La loro forza, certo, risiedeva nell’abile uso della pistola ma non se ne facevano vanto, anzi, la usavano il meno possibile rendendo questa loro bravura ancora più intimidatoria e potente. Il differimento della potenza risulta più terrificante della potenza stessa.
Un vero sceriffo non direbbe mai “se mi danno uno schiaffo io spacco la faccia”, non cadrebbe mai in una tale sproporzione che offenderebbe la sua autorevolezza e quel senso dell’equilibrio che la comunità ripone su di lui, guardiano della legge. Darebbe un segnale di insicurezza.
Ai veri sceriffi sono sconosciute le pulizie etniche e l’odio per gli omosessuali.
I grandi sceriffi hanno vaste amicizie virili, spesso coltivate in una relazione di sentimenti di omosessualità latente ove l’irruzione femminile, attraverso gelosie e risentimenti, ne dimostra l’esistenza. Nello scorrere il cinema americano, sino alla contemporaneità, attraverso gli sceriffi, troviamo pochi Gentilini.
Anche gli sceriffi venduti, alla fine, muoiono redenti.
Considerare l’ometto Gentilini uno sceriffo è un’offesa all’America, al suo cinema, e soprattutto rappresenta una sopravalutazione di questo piccolo uomo.
In genere, chi urla per affermare la propria virilità e unicità incontaminata è insicuro, debole, complessato; vede nemici che attentano alla propria identità perché non si è sicuri di averne una propria.
Gentilini è il folklore italiano alimentato dai media. I gay insorgono, la sinistra insorge, e va avanti il solito teatrino.
Gentilini, piuttosto, ricorda quei ladri (ex vaccari) delle mandrie altrui, con qualche depresso pistolero che lo accompagna, e che in qualche modo si fa nominare sceriffo in un momento di crisi della comunità.
Poi però arriva nel paese l’uomo vero, magari carico di nevrosi e crisi di identità (forse anche di tipo sessuale), tollerante e ambiguamente buono, che maneggia la pistola magicamente, anche se non la usa da tanti anni (infatti la tira fuori da un vecchio baule davanti alla moglie e i figli esterrefatti); è l’uomo giusto, il vero sceriffo. È’ più veloce, fa fuori il vaccaro che urla e sputa bestemmie e che con la sua “pistolina” non ci sa fare. Un rivolo di sangue scivola dalla bocca del vaccaro e questo per lo spettatore vuol dire che il giusto ha mirato, appunto, giusto, con una velocità impressionante.
Ma siamo sempre al cinema!

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