Il progetto della mia mostra abortita in Abruzzo e non so perché

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Nell’estate del 2007, a Montepagano, in occasione di una edizione di “Trasalimenti”, avevo esposto in buona compagnia di artisti una serie di operine di piccolo e medio formato raccolte sotto il titolo “City”. 

I lavoretti erano sistemati nelle soffitte del palazzo Mezzopreti di quella bella e antica città abruzzese che getta dall’alto il suo  sguardo alla vicina marina adriatica, mentre nel piano nobile del palazzo si dispiegavano le opere di Fabio Mauri. L’idea di stare sopra la testa di Mauri non mi dispiaceva. Essere artista “minore” ma sistemato sopra la testa di qualcuno che pur ammiriamo e rispettiamo mi pareva una buona posizione.

In quelle colorate rappresentazioni urbane, una pittura in forma di “maquette” come se si volesse dipingere la pluridimensionalità di un mondo con l’onnipotenza tipica dell’infanzia, circolavano però lavori che riguardavano la solitudine di un morente nella corsia di un ospedale, le rovine o l’angoscia notturna di una periferia; al gioco cromatico di una città felice serpeggiavano imminenti catastrofi, collettive o individuali, domestiche.

Lo stile, evidentemente, voleva occultare queste differenze rendendo il tutto “felicemente” fruibile. Lo stile con cui si dicono le cose è molto importante, per un artista la “forma” poi è l’essenziale. Un artista non può che formalizzare, sempre; iI contenuto è sempre nella forma.

In questa mia prova per “Trasalimenti 2009”, più impegnativa dopo le aeree soffitte di Montepagano, ho aggiunto, a completamento di una idea più generale, la campagna, il “paese” o, se volete, lo “strapaese” in qualche memoria storica e pittorica che molti potranno rintracciare; “Country”, appunto. C’è molta italianità in questo, di conseguenza molta cultura europea.

In un certo senso ” Country & City” conclude idealmente la narrazione cominciata a Montepagano in quell’estate di due anni fa. La scelta di un titolo in lingua inglese, una lingua “globale”, vorrebbe mettere in gioco il paradosso tra una velocità virtuale e la lentezza dei luoghi, o almeno una loro intrinseca  “resistenza”, esibendo un’ origine. Essere contemporanei significa sempre tornare a pescare in qualcosa di arcaico; con il rischio di essere inattuali.

Ma in verità, come ben sappiamo, pur definendo un percorso nell’illusione di averlo “compreso” e organizzato, lasciamo dei resti, delle inconclusioni, dei sentieri interrotti, dei progetti che meritavano forse un miglior destino, una lateralità pur importante del nostro viaggio ma che ha avuto poca fortuna, o  forse non è stato compreso. Noi stessi non siamo stati in grado di far comprendere. 

Sono quei lavori che contengono la progettualità di una crisi, sono le fratture tra le stagioni (esistenziali oltre che artistiche), le rotture tra le vertebre di un asse che pensavamo ci tenesse in piedi. 

Un progetto di crisi si delinea quando raccogliamo senza un sistema preordinato, in una specie di sospensione che oscilla tra noia ed inerzia ma ove si annuncia un lontano nuovo mattino. È un tempo vuoto. Eppure si è “costruito” qualcosa.

Le diciannove scatole reintitolate “facies” (non chiedetemi che fine abbia fatto la ventesima) nascono da questo stato di vuoto di un annoiato collezionista di cose inutili, recuperate dal fondo del’inessenziale e della marginalità, anche dalla spazzatura. Il progetto si è delineato spontaneamente in tracciati di volti, archetipi di volti, maschere, dominati dal demone della simmetria e dello specchio, che hanno aiutato l’idea compositiva, il farsi di una “regola”, per così dire. 

La serie “scultorea” Angelus Novus non è che la derivazione tridimensionale di queste scatole nate da un naufragio, per quanto colorato, mentre è evidente, per molti accorti osservatori, l’omaggio a Paul Klee e a Walter Benjamin.

Poi c’è un vecchio lavoro su parete dal titolo “Sistema nervoso” che per questa mia mostra desidero riproporre. Questa “istallazione” flessibile (che varia a seconda dello spazio e delle sue dimensioni) la definirei  “pittura”. Si tratta di logori stracci neri tenuti in “tensione nervosa” da pugni chiusi, calchi della mia mano e di quella di mio figlio (una involontaria metafora edipica?). La sovrapposizione di stracci, con le lacerazioni pendenti e le sfilacciature, vogliono essere nient’altro che scolature di colore e una modalità della  pittura.

La sproporzione tra lo sperpero di energia ed i risultati, quando proposi per la prima volta questo lavoro più di un decennio fa in un luogo molto particolare, mi spinge ora a mostrarlo ad un pubblico, spero, più vasto, e più libero da condizionamenti claustrofobici di “sistema”, che spesso tarpano l’autenticità del  gesto artistico.

Infine propongo un lavoro sospeso dalla terra, aereo, che abita metri cubi piuttosto che metri quadri lineari, il cui supporto è l’aria, il vuoto. Questi misuratori di aria e di correnti, ma d’interno, si fondano sullo stesso linguaggio e sugli stessi principi delle scatole “facies” e degli “angelus novus”, solo che vogliono sollevare lo sguardo dello spettatore verso un asse ottico verticale, verso l’alto, dove in genere non guardiamo mai, radicati come siamo alla linea terrestre ed alle superficii verticali ad essa perpendicolari.

 

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