Antonio Marchetti:Gineceo. Alberto Boatto

antonio-marchetti-nodo.jpgConsiderato soltanto alla superficie, “Gineceo” di Antonio Marchetti (il Filo editore, Roma 2008) è una narrazione evidente in ogni suo particolare. Si tratta di un racconto dove l’autore ricostruisce l’intera sua giovinezza, dall’infanzia alla fine dell’adolescenza, dopo gli ultimi anni di un caotico dopoguerra, in una città del centro Italia affacciata sul mare (probabilmente Pescara*). E da questo nucleo discende naturalmente la rappresentazione della casa dove vive, della sbandata ma numerosa famiglia, dei compagni di giochi, e poi la scuola, la chiesa, il piccolo cinema della periferia. Certo il libro di Marchetti è questo, ma non si esaurisce interamente in questa cronaca domestica e prevedibile.Nelle prime pagine, l’autore definisce la natura umana una “poltiglia lattiginosa, ambigua, opaca e ambivalente”, ed è proprio in questa “poltiglia” che affonda la sua narrazione. Questa materia, fatta di pastasciutta e di sperma, d’ingestione della prima e di dispersione del secondo, sommerge l’arco completo della formazione dell’io narrante. Fino al capitolo conclusivo, dove il protagonista viene presentato ventenne e felice proprietario di un’utilitaria, incerto se partire o rimanere, lasciare appunto alle spalle la materia della sua formazione oppure immergersi in essa sino in fondo, trarne tutti gli improbabili profitti. Il narratore non parte, rimandando ogni decisione ad un domani imprecisato.Nel libro questa “poltiglia” si rivela sorprendentemente produttiva. Determina il tipo di narrazione, singolarmente portata più dalla consistenza dello spazio che dalla scorrevolezza del tempo, ed alimenta infine l’humor che colora e deforma tutte le cose. È lo spazio a segnalare i cambiamenti, lo stesso trascorrere della durata. Ed è il senso dell’humor che plasma la “poltiglia” biancastra, ne ricava i personaggi, una rumorosa marmaglia di bambini e di bambine, di ragazzi e di ragazzette, di uomini e di donne.Marchetti finisce per tracciare una minuziosa cartografia, che partendo dal quartiere popolare dove abita, si slarga per tappe successive dal blocco abitativo alla strada, al rione periferico. Fino a segnare la scoperta dei quartieri esterni, dove dimora la borghesia, un mondo diverso negli abiti, nelle abitudini e nello stesso linguaggio.All’intreccio delle strade e dei percorsi abituali in cui si logora l’esistenza del giovane protagonista, corrisponde l’intreccio della parentela. La famiglia, seppure disunita, col padre che vive con un’altra donna e un altro figlio, e con la madre che si è data alla vita, la famiglia è assestata su un fitto numero di componenti, d’incastri, di congiunzioni. La “poltiglia” che invade ogni parte di “Gineceo”, fatta com’è di materia carnale, è fatta con fatalità anche di succo parentale. Con forza espressiva il libro di Marchetti ci testimonia la calda, spaventosa, proliferante realtà familiare di un’Italia che sta uscendo con affanno da una condizione d’arretratezza provinciale e contadina.Ma interviene l’umorismo con la funzione di un salvagente che tiene a galla, impedendo di sprofondare, d’appiattire tutto nel trionfo dell’opacità e dell’anonimo. Ogni figurina che compare è caratterizzata fisicamente e psicologicamente. Magari solo dal colore del vestitino che indossa, dalla smorfia del volto e dall’umile mestiere che esercita. Anche la fatica senza respiro di tutte queste casalinghe, a partire dalla nonna Bettina che tiene in qualche modo unita la dispersa e troppo larga parentela, anche il lavoro delle massaie viene presentato come un mestiere. Come in effetti lo è, privo di qualsiasi compenso anche semplicemente affettivo. Malgrado le acclamazioni che accompagnano i piatti della tradizione contadina che vengono confezionati per le riunioni plenarie della “famiglia-serpente”.Marchetti tende a trasformare i suoi personaggi in piccoli, domestici mostri, scodati ma non affatto innocui. Tranne due: la nonna, che svolge un po’ il ruolo di “martire”, e poi la mamma, la bella e scapestrata Viola che col suo debole per gli uomini e la sua infatuazione per i divi del cinema americano introduce un soffio di folle ariosità nell’asfissia di un mondo portato a fondo dai legami di sangue, dall’egoismo e dalla forza del sesso che infierisce come un’epidemia, senza offrire né distensione né gioia. Il protagonista se ne difende con l’esercizio dell’umorismo, ma ne resta in sostanza prigioniero. Sebbene al volante della nuova Cinquecento, non riesce a risolversi, ad accendere il motore e a scappare via.(*) Sui rapporti fra la città di Pescara ed Ennio Flaiano, Marchetti ci ha fornito una persuasiva e brillante documentazione nel suo: “Pescara: Ennio Flaiano e la città parallela”, Unicopli, Milano, 2004.Antonio Marchetti, Gineceo, Edizioni Il Filo, Roma dicembre 2008, pp. 123, € 14,00

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