Architettura di stato, architettura globale

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Grandi architetti erigono utopie realizzate e macchine fascinose nelle città più o meno globali del mondo. Sono gli archistars, così definiti perché visibili ormai anche dal grande pubblico.
Sono costruttori di miti ed utopie, oggi facilmente realizzabili grazie alla tecnologia e al digitale, in questa realtà economica capitalistica globale che può tutto.
Miti istituzionali, miti delle merci, miti culturali.
Ad un singolo manufatto architettonico si affidano intere comunità e ad esso vengono chieste forme di riscatto e si attuano riti compensatori per tutto quel resto di città difficilmente governabile, come avveniva con i totem nelle società non stanziali ove oltre il cerchio delimitato dal fusto ligneo vigeva una territorialità non sottoposta alle leggi del sacro.
Dentro la fluidità liquida, nomade e magmatica dell’indifferenziato urbano, vengono incuneate queste utopie realizzate; la smaterializzazione si materializza, le contraddizioni e le aporie, formali o di derivazione storica-ideologica, si fanno architetture fantastiche che dichiarano il loro esserci e la loro fattività qui ed ora.
Tutte le utopie architettoniche, soprattutto quelle europee tra le due guerre del secolo scorso, sembrano magicamente realizzarsi; le poetiche prefigurazioni di Paul Scherbart sull’architettura del vetro e tutte le ricerche sull’architettura mutuata dalla struttura dei cristalli, in ambito soprattutto espressionista, sono ormai davanti a noi, persino in fotocopia: faraonici centri commerciali nei più improbabili dei nostri spaesaggi. Dall’architettura disegnata a quella realizzata.
Eppure, non era questo il compito? Di uscire dall’indifferenziato e dalla “percezione distratta” a cui il Moderno ci aveva abituato?
Queste architetture sono investite di una responsabilità simbolica dettata da categorie molto precise: Politica, Stato, Consumo, Istituzione.
Poi ci sono i resti, tutto il resto.
Tutto il resto è la nuda vita.

I vuoti periferici attendono l’imitazione degli archistars.
Una vita comportamentale mimetica e falsata.
La “buona architettura”, sparita.
Perché una tale procedura mitica presuppone o la grandezza o il nulla, come accade in televisione o in altre forme di esposizione mediatica contemporanea. O tutto o niente. E siccome nessuno vuole essere il nulla avremo un’architettura che non sarà più rappresentativa o al servizio di una comunità, ma solo di un conflitto narcisistico, e di potere, attuato ai nostri danni.
Epigoni di archistars e devastazione territoriale, con macchine sempre fuori scala come ready-made dadaistici.

Con malinconia, scorriamo i disegni, gli acquerelli e le opere di Aldo Rossi, le sue “permanenze” della storia urbana, l’idea del “monumento”, le memorie collettive che si raggrumano intorno ai luoghi e le cose. Penso che andrò a rivedermi qualche vecchio film del dopoguerra con le case a “ringhiera”, ricordando gli ampi pianerottoli dove si giocava, e dove già si praticava il cohousing ma al naturale.

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