Minorenni

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La parola “minorenne” riverbera una tonalità da aula di tribunale, da codice penale. Una tonalità che ha sapore giudiziario, prescrittivo; evoca procedure, dispositivi che attengono al diritto. Il debordamento comportamentale pare vi sia già inscritto.
È una brutta parola.
La parola esprime anche un limite, un confine, una specie di zona franca, un cono d’ombra che circola nella vita attiva ma che nello stesso tempo si sottrae, si mantiene sospeso.
“Minore”, in una dolcificazione giuridica, è oggetto di “tutela”, di contesa, se non di conflitto, nelle eterne lotte delle separazioni e dei divorzi.
Il “minore” sembra occupare una zona grigia alla quale, di volta in volta, viene attribuita una liquida e mutevole identità.
Al “minore” manca qualcosa, mancherà sempre qualcosa, è una non persona.
Ma il “minore” oggi si dilata, diventa “maggiore”.
Da un lato il “minorenne” è delimitato da un forte cerchio protettivo e tutelato dal “campo” che l’adulto ha disegnato intorno a lui, ma dall’altro la sua azione è pressocché illimitata, senza regole, e senza sanzioni qualora l’uscita dal “campo” dovesse renderle necessarie.
Forte delimitazione ed illimitatezza regolano lo spazio del minorenne.
Bel paradosso.
Il piccolo bambino ti guarda con occhio incredulo mentre tu gli parli con voce da paperino, con quella voce gallinacea-regressiva dove tu ti fai piccolo/a per comunicare.
Lui ha capito già che sei tu “minore”, che sei idiota, e si chiede perché mai una persona adulta deve rivolgergli la parola con quel tono falsato e cretino.
Hai tarpato l’evoluzione della specie con quella voce insopportabile da immaturo/a che sei.
Per quel bambino, che non sente mai una bella voce adulta maschia o femminile, si è già costruito il destino di un eterno, pericoloso, minore – minorenne.
Dopo può fare tutto.
Esentato da tutto.

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