“L’ambiguità“, di Simona Argentieri. E altro…

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antonio marchetti persons

Peccato, un vero peccato, che un libro così arrivi con quasi vent’anni di ritardo.

Lo avremmo preferito prima, quando si procedeva per intuizioni e sensorialità individuali, quando ci dicevano: “sei esagerato e negativo”, mentre si svolgeva la grande festa del nuovo esserci, quando  il grande giornalismo (penso al compianto Giuseppe D’avanzo) già rivelava la menzogna collettiva. Altre figure rivelavano “il narcisismo irrisolto” mentre la psicoanalisi dormiva. Il grande reportage giornalistico ha fatto molto di più. Il libro dell’Argentieri arriva in ritardo scandaloso all’appuntamento. Vi arriva splendidamente, certo, ma lo leggiamo con gli occhi conficcati dietro la schiena. Il primo capitolo del libro, “la malafede come nevrosi” annuncia un esordio di grande interesse soprattutto quando ci si riferisce ai soggetti, al “lettino, come la studiosa ancora li definisce. Successivamente, nella “diluizione” sociale e collettiva, tutto sembra via via indebolirsi andandosi ad intrecciare ad uno sguardo ombelicale ove la psicoanalisi guarda se stessa e fissa i suoi punti di ricerca, pur con una onestà sorprendente quando, a proposito della “malefede” l’Argentieri scrive: “… il problema maggiore è che purtroppo neanche gli psicoanalisti sono al riparo dal rischio della malafede, sia come singoli terapeuti, sia come membri di istituzioni. Paradossalmente, per chi conosce i ‘trucchi’ dell’inconscio è più forte la tentazione di interpretare a proprio vantaggio la realtà e i conflitti con gli altri.”

Gran parte del libro vuol fare i conti, ma non più di tanto, con la propria disciplina, e leggere anche la contemporaneità. Ma allora a chi si rivolge? Più o meno inconsapevolmente – al di là di brillanti enunciati, alcuni memorabili – elegantemente, e con riferimenti storici puntuali – inconsapevolmente e “ambiguamente” la psicoanalisi sembra ritirarsi, non essendo più in grado di proferire enunciati chiari.

Si maschera – e maschera il mondo – in un fraseggio ove il senso è come occultato. Nei momenti in cui ci aspettiamo qualcosa, una “decisione”, una “scelta”, “un affondo” (sì, affondare, entrare nelle viscere con il rischio dell’errore professionale-accademico), il libro ci lascia afflosciati nella delusione. Ma sono anni che è così. Titoli accativanti e seducenti, un capitoletto appena avventuroso ed il resto conformista e consolatorio. Un vero peccato. Quello che manca in questo libro lo scriveremo tutti noi nelle nostre esperienze quotidiane. È un libro stimolante. Ma abbiamo bisogno di ben altro. Siamo bisognosi di skandalon.

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