Archive for Gennaio, 2007

martedì, Gennaio 9th, 2007

Flaiano

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martedì, Gennaio 9th, 2007

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Poeti e altro

martedì, Gennaio 9th, 2007

L’onnipotenza del poeta è ferocemente silenziosa.

Se un poeta è inascoltato gli fa bene.

Due poeti uccidono il terzo.

Se in una tavola di poeti non c’è niente da mangiare si mangiano tra loro.

Il flosofo Gianni Vattimo indossa il pensiero Lebole.

Nelle famiglie scorre sempre del buon sangue

La famiglia lavora bene, si fa male da sola.

Elio Di Blasio. La penombra. (uomini pescaresi)

lunedì, Gennaio 8th, 2007

La creazione di forme proviene sempre da una interiorità.
Le opere assomigliano ai loro creatori e i modelli preesistono all’invenzione.
Le donne di Picasso erano già cubiste, bisognava solo tradurle. Lui forse le aveva già “scomposte”, al vivo.
Potrebbe trattarsi di un dato somatico, un tratto dell’anima, un autoritratto distribuito in tipi, un carattere geografico o terra di appartenenza, un paesaggio interiorizzato; introiezione incancellata come nel materno grembiule fiorito in Arschile Gorky. Si dipinge comunque sempre se stessi.
Se c’è un pigmento cromatico che possa definire una tersa marina adriatica o un cielo d’altopiano abruzzese questi sarebbero riscontrabili nella striata pozza azzurra degli occhi di Elio Di Blasio.
Lui guardava con questi occhi, già in fase fetale impastati con la stessa sostanza materiale e cristallina del mare e del cielo e, di conseguenza, dipingeva ciò che era già presente nel suo occhio.
Fortuna dei pittori!
Essi si sono definitivamente spenti, ad età veneranda, a compimento di una vita ben spesa, accompagnata negli ultimi anni dal meritato riconoscimento pubblico della comunità pescarese. Uomo di battaglie, alimentato da un sano furore polemico, capace di tenere il punto con caparbietà e tenacia ma consapevole di agire in un teatro – luogo virtuale della vita, ove le cose, anche drammatiche, accadono, ma pur sempre e solo sulla scena – viene fermato nella sua irruente vitalità da un ictus, intorno alla metà degli anni Novanta, menomandolo visibilmente in forma asimmetrica in alcune funzioni. Dopo tenaci sforzi riabilitativi riesce a mettere in scena anche questo accidente, lo “gioca” nella vita, grazie anche alla sua innata socialità ed alle presenze giovani e vitalistiche di cui ha sempre amato circondarsi e, non ultime, picassiane e affascinanti amicizie femminili che dimostrano come solo aprendosi alla propria componente femminea, attitudine accentuata negli artisti, si possono davvero amare le donne.
E, naturalmente, la pittura.
Appena qualche anno fa avevo scritto una pagina per lui:
«Elio è qualità gassosa, leggera, tendenzialmente instabile e impermanente. Elio è anche il nome greco della divinità solare, è la personificazione stessa del sole. Tuttavia, nonostante crediti patronimici così aerei, volatili e celesti, Elio Di Blasio è e rimane uomo e artista di terra. I suoi cieli sono trascritti stando ancorati nella solida e protettiva crosta terrestre mentre i suoi segni di terra non sono il risultato visivo dell’occhio alato ma semplicemente un distacco verticale, anch’esso radicato a terra, solo un po’ più alto, come può esserlo un colle, un altopiano, una montagna.
Alto-basso, verticale-orizzontale, superficie-volume, retta-curva, sempre con solide ramificazioni al globo terrestre, sono gli elementi di permanenza della ricerca di Elio; qualità che specularmente definiscono anche la morfologia paesaggistica dell’Abruzzo.
Il suo tragitto è sempre stato informato dal tentativo di sintesi delle diversificate e dialettiche forme terrestri, costanti, tendenti alla ripetizione differenziata.
Perchè se è vero che l’instabilità e l’impermanenza sono un tratto del suo onomastico è nella permanenza dei temi che il gioco investigativo si fa interessante e fissa uno stile.
Nel destino contenuto nel nome, tra l’effimero e la volatilità delle mode (la qualità gassosa appunto) e la luce abbagliante della vanità mondana (il dio Sole), Elio occupa un punto equidistante rappresentato dalla penombra. La durata.
Per paradosso tale condizione intermedia finisce per assumere nel tempo- in quello che si è speso personalmente ed in quello vissuto dai testimoni – una netta densità luminosa sua propria, la cui collocazione nessuno potrà più ormai rimuovere.
Oggi, con un pò di caratteristica impudenza e con spalle ancora forti, con i piedi saldi a terra e la testa verso il cielo, Elio tenta eroicamente di tener fronte, come meglio non si potrebbe, al terribile motto di Emil Cioran: “Occorre molta insensibilità per affrontare l’autunno”.»

lunedì, Gennaio 8th, 2007

Lorenzo Bartolini

lunedì, Gennaio 8th, 2007

Fellinia 3

lunedì, Gennaio 8th, 2007

Il buon Martin Scorsese vede cose, nuovo Savinio, che noi non vediamo, una Rimini che gli Americani ci devono ancora spiegare. Noi invece, abitanti di Fellinia, siamo perplessi e vediamo intorno a noi, in un incubo che ci assale anche la notte, la città di Blade Runner.
Nel suo splendido Voyage to Italy Scorsese ha dedicato al cinema italiano un omaggio toccante, ma è cinema, cinema italiano, ogni sovrapposizione con la realtà di oggi è ridicola.
Lasciamo agli americani gli stereotipi utili a rimpinguare il nostro erario, sperando almeno che venga redistribuito – basta andare in un agriturismo nel Chianti per capire cos’è l’Italia vista da Sharon Stone e dai suoi connazionali, ma bisogna pur ammettere che quel Chianti lo hanno pur salvaguardato – facciamo pur finta di crederci per essere credibili, ma qui tra noi ci sono degli idioti, lontani da Dostoevskij, che ci credono veramente; Fellinia insomma vuole diventare cinema, una grande opera Pop, ma quando Fellinia si chiamava Rimini non nasceva sul deserto come Las Vegas, c’era parecchia Storia, una Storia puntellata anche di audacia e sperimentazione in “quel” contemporaneo, penso all’Alberti.
Si potevano comprendere i parenti del Nostro Grande Regista, che dovevano riscattarsi da duri anni di anonimato represso, mossi da una più che giustificata rivalsa socio-antropologica che salta dall’invisibilità provinciale all’internazionale lasciando poveri cristi piegati sul duro lavoro intellettuale a bocca asciutta. Ma non tutta una città! Dai bar appena scendi dal treno ai ristoranti, ai consorzi enologici, alle piazze, alle rotonde; aveva ragione Zavoli, è un Fellini in tutte le salse, non se ne può più. Cerchiamo allora di essere radicali, come al tempo delle Avanguardie, chiamiamola Fellinia definitivamente e tutto quello che c’è dentro saranno manifestazioni animistico-consumistiche dell’incolpevole Maestro.
Dietro il paravento Fellini, questo Padre Pio della città (visto che la città “recita” la laicità centrosinistra e un santo viene sostituito da un regista), si saccheggia e si ruba mare e paesaggio vomitando cemento in una totale autoassoluzione “culturale” e imbecille.
Lo so, un giorno le statue di Fellini piangeranno sangue, come le Madonne dei giardinetti mescolate ai Sette Nani, e noi tutti ci chiederemo perché.
Ma il furto è anche un altro, nello “specifico”.
Quando anni fa nell’anfiteatro romano – no, vi prego, lasciamo per ora perdere com’è stata acconciata quella rovina – venne presentata la pellicola restaurata del Maestro, Il Bidone, tutti parlarono di tutto, aneddotini di nuovi acculturati e neo-laureati, persino storielle di cattivo gusto sull’alcolismo del notevole Broderick Crawford e infine su un grande sceneggiatore, uno davvero grande ve lo assicuro, la Rimozione Biblica fu sconcertante: Ennio Flaiano.
Non assolviamo neppure Scorsese che nel suo omaggio al cinema italiano dichiara che I vitelloni lo ispirarono per Goodfellas, in Italia conosciuto con il titolo di Quei bravi ragazzi.
L’italo-americano non cita, o non sa, che Ennio Flaiano, abruzzese, costituisce la vera ossatura del film.
“Vitellone” è parola abruzzese, deriva da “vudellone”, grosso budello, in famiglia è indicato come un figlio ormai adulto che mangia a ufo, animale all’ingrasso. E poi, in tutti i film del Maestro, l’amico Flaiano graffia inconfondibilmente: il collegio in 8 1/2, il mare finale della Dolce vita, persino il paparazzo, reporter spericolato romano dei “dolci” e “favolosi” anni Sessanta, deriva da “paparazze”, le vongole nel dialetto abruzzese, altra invenzione flaianea. Da noi l’eco è “poveracce”, è lo stesso mare Adriatico in fondo.
Ma si potrebbe continuare, qui non c’è spazio, e ci faremmo solo del male senza alcun lenimento.
Allora il furto non è solo del territorio martellato dal Kronos dello sviluppo ma anche nel Logo, nella sua finta e menzognera filologia, nel suo fissante culturale spruzzato da stagionati coiffeur, furto delle nostre intimità intellettuali e di conoscenza, facendo pure del male ai morti, ricancellandoli di nuovo, pur innalzando loro Monumenti per poi affossarli, solo per costruire un marchio DOC globale, semplificato, localistico e separatista, protoleghista, pur professandoci aperti all’altro ed alla sua accoglienza ma indossando il tasmanian elegante della doppia morale della “secessione” ideologica intramuros e quella dell’eterno portafoglio, dualismo che ormai non incanta più nessuno, statene certi.
Si preferisce dunque l’Uno, facile da vendere, e non l’insieme complesso che compone quell’Uno, si scarta la voce non funzionale e si persegue la nuova religione idolatrica laica che schiaccia vivi e morti.
Noi, vivi, possiamo almeno reagire.
Ma, poeticamente, persino praticamente, siamo costretti a farci carico pure della voce strozzata dei morti.

Fellinia 2

lunedì, Gennaio 8th, 2007

Qualche tempo fa Sergio Zavoli, in un dibattito pubblico nella corte degli Agostiniani, si lamentava del fatto che non si capisce mai, quando si arriva a Rimini, da dove si entra, quale sia l’accesso visto che ce ne sono molti. Da dove si entra a Rimini?
L’Arco di Augusto, che de-finisce la via Emilia, ritaglia un lembo di cielo e non può considerarsi un’entrata mentre quella piccola porta di Cinecittà, in Via Garibaldi, è stata messa lì più che altro per occludere ed è opera di qualche disadattato; tutte le segnaletiche sulla Statale indicano molti ingressi per Rimini ma quale sarà per il viaggiatore quello buono? La notazione di Zavoli è estremamente interessante e pone la domanda:
Una città senza ingresso che città è?
Decidendo con Zavoli un qualche accesso automobilistico – noi consigliamo sempre il treno seppur pericoloso a volte – pur di entrare smaniosi a Fellinia, saremo sottoposti ad una ginnastica rotatoria fatta da tante rotonde spesso artisticamente decorate da altri disadattati che esteticamente ce la devono far pagare per problemi tutti loro. L’”estetica” è considerata marginale forma di risarcimento e non progettualità fondante. Sulla psicopatologia delle rotonde è già stato ampiamente scritto su questo quotidiano con notevole competenza. Eppure le rotatorie le ereditiamo dalla migliore cultura nordeuropea. Esse infatti, superando le sequenze temporali dei semafori che producono più incidenti presso popolazioni con caratteristiche genetiche anarcoidi come quelle italiche, responsabilizzano l’automobilista autoregolamentandolo. Insomma stai più attento, le statistiche lo dimostrano. Negli uffici urbanistici c’è stata la rivoluzione, via squadre e righelli, sono arrivate confezioni di compassi e curvilinei e tutti si sono lanciati nelle curve di Bézier. Cartesio è notoriamente morto.
Come mai allora ciò che funziona nelle città nordeuropee non funziona a Fellinia? Forse perché siamo rimasti affascinati dalla forma senza il contenuto.
Estendendo l’enunciato di Zavoli il problema è: una volta entrati in città dove andiamo oltre a girare a vuoto in una Mirabilandia che fa pendant all’Italia in miniatura? Il fatto è che lo stimato Zavoli ha nostalgia di un centro, concetto civico etico ed ideale prima che urbanistico e come tutti noi, in fondo, è ancora poeticamente aggrappato al perduto. L’idea di un cuore della città non ci è più dato. Altri organi vitali vanno capillarmente a distribuirsi nello s/paesaggio e questo cuore storico presto lo vedremo conservato in una bacheca museale come un vecchio reperto anatomico o ridotto ad una scenografia virtuale, sfondo per presepi natalizi nel rucupero patetico dello Strapaese incapaci come siamo di gestire il blob contemporaneo che circonda il nostro spazio vitale.
Eppure dobbiamo dirlo: la visione di Zavoli, come la nostra, è una visione diurna, quasi solare nella semplicità delle proposizioni.
Ma Fellinia apre altre mappe, notturne, che molti riconoscono, vi navigano con scioltezza sapendo dove e come arrivare. C’è sicuramente una Fellinia clandestina e sconosciuta, culturalmente ed esistenzialmente, che vive nelle pieghe che non si vogliono vedere abbagliati dal sole diurno. Naturalmente usiamo la notte in forma metaforica, è la notte che si contrappone al conformismo mentale del giorno, melanconicamente orfano di un’idea di centro che oggi non esiste più.
Il problema della notte, di una città parallela, sia nella sua forma simbolica quale contrapposizione alla “normalità” che si avvita nel conformismo di un mondo che vuole nevroticamente conservare e non rivitalizzare ciò che non è più, sia in quella immanente della nuda vita, è troppo importante per affidarlo ad albergatori, bagnini, gestori di pubs e discoteche. Sbagliano i politici-amministratori ad ascoltare solo loro.
La notte andrebbe ridisegnata. Soprattutto dal punto di vista delle nuove mappe geografiche-antropologiche e dell’acustic-design.
Lo so, nella città ci sono tante persone intelligenti e invisibili, esseri notturni che formano una città parallela inascoltata. E questo per me è ancora rassicurante.

Fellinia 1

lunedì, Gennaio 8th, 2007

Quella piccola Porta di pietra che chiude, o apre secondo le autentiche vocazioni di una Porta, Via Garibaldi, rappresenta la vera sinéddoche della città di Rimini, è la parte che sta al tutto. Amputata delle sue articolazioni anatomiche-urbane, pelata e ripulita da sembrare soffice e mangereccia come un dolce di Natale o più semplicemente “cinematografica”, pronta per essere smontata sasso per sasso con la forza agile di uno Steve Reeves in un Maciste o Ercole anni Sessanta trasformandoli in proiettili contro i cattivi, questa Porta si rivela come un’autentico ready-made; è quel famoso gesto provocatorio del maestro dadaista Marcel Duchamp, ormai lo sanno persino gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, che consisteva nell’esporre nello spazio sacrale riservato all’arte oggetti d’uso quotidiano, utensili e varie banalità. Vista sotto quest’ottica l’operazione in sé non sarebbe molto malvagia ma purtroppo questo montaggio Lego restituito alla città esibisce il fatidico vessillo del “com’era dov’era”, insieme a tutta la filosofia che contiene: simultaneità di spazio e di tempo annullando la durata che modifica inevitabilmente tempi e luoghi. Se fosse un oggetto spaesato, racchiuso in una scatola di cristallo, sapientemente illuminato nella notte accentuandone l’aspetto fantasmatico, se avesse le caratteristiche distratte dell’objet trouvè, del reperto, del frammento che sta ad un’unità perduta, se l’operazione fosse stata quella di radicalizzare il teatro, la scena, di accentuare scenograficamente l’impossibilità di ricomporre l’infranto, di spingere la finzione sin dentro il suo linguaggio con sobrietà estetica quasi minimalista avremmo potuto dire: ecco una scelta coraggiosa. E invece al finto c’è chi ci crede veramente, o ipocritamente, e purtroppo questo sarà, è scritto, il destino di Rimini: l’Italia in miniatura e i set felliniani quali riferimenti di fondazione. Poi l’orrore urbanistico dell’altrove che circonda il nucleo storico sarà psicanaliticamente risarcito dal ritornello del com’era dov’era, sponsorizzato magari da qualche illuminato e “acculturato” immobiliarista.
Nel romanzo di Sebastiano Vassalli 3012, scritto nella metà degli anni Novanta, viene descritta una città, la favolosa Fellinia, la più grande illusione dell’Evo antico. Rimini è tutta lì, e la si sta costruendo proprio così. Anzi è già così.
Mi sono spedito una cartolina un mese fa da Milano e dopo l’indirizzo ho scritto 47900 Fellinia. Provate anche voi.

LO SGUARDO È SEMPRE ALTROVE.

lunedì, Gennaio 8th, 2007

Girotondo.
La vertigine parossistica posizionale è un disturbo provocato dallo spostamento di quei minuscoli sassolini che abbiamo all’interno dell’orecchio e che regolano il nostro equilibrio. Alcune volte le donne si divertono a spostarceli.
Per rimetterli a posto ci vogliono procedure molto precise.
Il girotondo è escluso. Ti sbianchi in volto, ti roteano gli occhi, brividini freddi ti assalgono, ti viene la nausea, ti gira la testa e vorresti vomitare.
Se a questo disturbo periodico va ad aggiungersi una scotomia congenita ne viene fuori che la tragedia dell’infanzia si prolunga in quella dell’adulto: non poter partecipare al girotondo, al cerchio sacro dell’appartenenza.
Vi lascio immaginare la condizione di forzata marginalità del vertiginoso e la sua ovvia distanza da pratiche ginniche rotatorie intorno a un centro.
Sarà uomo decentrato, eccentrico, squilibrato, suo malgrado.
Per fortuna i girotondi vanno via via scemando, pare infine che si è caduti tutti giù per terra.
Si può dire che in quell’invidiabile legarsi teneramente per mano circolarmente si guarda l’altro se stesso, quello che abbiamo di fronte nell’altro punto della circonferenza.
Ci si appartiene appartandosi, pur affermando il proprio esserci nel mondo.
Ci si ri-guarda, nel senso francese; si è anche persone di riguardo, ragguardevoli, vip, importanti adulti-bambini che disegnano il cerchio della separazione-appartenenza in fuga dalla noia impotente del quotidiano.
Ci contiamo, ci riconosciamo, tautologicamente tracciamo la presenza.
Il giro intorno al mondo è il mondarsi dal mondo, pulizia radical-mondana che ci affranca dalla fatica del mattoncino giornaliero da mettere uno sull’altro, faticoso e poco spettacolare. In questo gioco lo sguardo si rivolge allo specchio, sguardo del noi che esclude voi.
Del girotondo un amico mi offre una versione della filastrocca meno consolatoria:
Giro giro tondo
Che ci faccio in questo mondo?
Ci faccio quel che posso
Con il mio groppone addosso
Quando non ne posso più
Piglio le gambe e mi butto giù.

Schivare.
Elias Canetti inizia il suo Potere e sopravvivenza con questa parola: “schivare”.
“Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano”, esordisce il premio Nobel bulgaro.
E prosegue: “Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, poiché non siamo all’altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo aver a che fare con altri pericoli di ignota entità. Anche quando ci imbattiamo in questi ultimi, e accade puntualmente, essi posseggono pur sempre il brillìo delle cose improvvise e uniche.”
Ma lo sguardo dello schivatore non è quello dell’indifferenza o della passività.
Al contrario, i protagonisti dell’altrove sono agìti da passione e attivismo ed irradiano il “brillìo” delle cose lontane, che dobbiamo condividere con loro, schivando così anche noi l’obsoleta vita quotidiana.
Bastano poche settimane di frequentazioni di quell’altrove a noi sconosciuto che, con sicurezza e competenza, ci viene proposto un libro scritto alla velocità della luce .
La matassa complicata del qui, ormai fuori moda, è sbrogliata e semplificata nella narrazione dell’altrove, che ha sempre il “brillìo” del nuovo, con un azzeramento alle spalle.
Lo sguardo dei compaesani rivolto alle case perdute che scivolano giù con la frana è troppo prossimo a noi, son fatti troppo vicini, come i morti ammazzati a Napoli o le limitazioni della nostra libertà di cinque minuti fa. Ed è pur sempre intorno al mostro quotidiano che si erigono i nuovi templi della bellezza e dell’arte.
“C’è una netta tendenza a buttarsi verso le cose più lontane, subito, e a trascurare così tutto ciò contro cui si va continuamente a sbattere”, scrive Canetti.

Farsi guardare.
Il ritornello sociologico lo conosciamo tutti.
C’è oggi un’angoscia che attraversa le persone rappresentata dal rifuggire dall’anonimato. Tutti vogliono apparire, non c’è più nessuno seduto in platea.
L’”idiota” del XX secolo, Andy Warhol, lo aveva predetto. Ben prima di lui lo aveva capito l’europeo Duchamp, riscattando il banale e l’ovvio sbattendocelo davanti agli occhi.
È del tutto evidente che se tutti appaiono e vogliono farsi vedere e ascoltare c’è una inevitabile deprivazione dell’intelligenza. Diventeremo tutti stupidi ma senza passare prima dall’ufficio di Bartleby.

Amore.
Anche nell’amore si tende a schivare. Non avevamo dato troppa importanza, o avevamo rimosso, quel dettaglio irritante, quella frase rivelativa, quella inopportuna invasione del nostro spazio, quando avevamo uno spazio. Così, schivando e rivolgendo lo sguardo al futuro che aggiusta sempre tutto, ci ritroviamo a pagare il presente. Separazioni, divorzi, avvocati per aver schivato l’insignificante dettaglio dell’esordio e non essersi fidati di se stessi e dei propri occhi.

Posta elettronica.
Mai mandarsi una foto quando si scambiano e-mail. Rimanere così, sconosciuti allo sguardo, dirsi cose intime e segrete ma salvarsi dallo sguardo.
Dopo, se ci si è guardati solo una volta, ci si scriverà solo banalità giustificatorie, per nascondere la delusione degli occhi che dicono tutto e subito.

Libri.
Al leggere si preferisce rileggere, ognuno si difende come può. Lo scrittore Alberto Boatto oltre ad essersi occupato di Duchamp, Pop Art e di ghigliottine si è interessato anche di sguardi. Il suo libro nei lontani e primi anni Ottanta, Lo sguardo dal di fuori è da rileggere.

Scuola.
Gli unici che possono sottrarsi dallo sguardo panottico sono gli studenti, proprio perché si parla molto di loro. Documenti, relazioni, acronimi surrealisti, griglie valutative, percorsi formativi, obiettivi prefissati e raggiunti, sportelli didattici, sostegni psicologici e grafologici, recuperi in itinere, corsi di sostegno, progetti di accoglienza, orientamento pre-post-diploma, corsi extrascolastici, educazione sessuale, non fanno altro che privilegiare gli studenti che possono permettersi vite clandestine e segrete e salvarsi dalla perlustrazione incessante del totalitarismo educativo. Essi sono già scomparsi, la macchina scolastica può continuare a funzionare da sola, virtuale com’è.
La scuola è una simulazione, laboratorio avanzato ove si allestisce il nulla ecumenico in atto, mentre gli studenti sono i nuovi eroi dell’invisibilità.