Archive for the ‘Nuda vita’ Category

Surplace

lunedì, Luglio 2nd, 2007

cielo2

.

Astratte e rigorose geometrie si proiettavano ortogonalmente sui campi vuoti. Non un segno, non una recinzione, nessuna misura sosteneva o comprovava le regole del gioco del calcio. Solo due sassi o due libri di scuola per segnare le due porte mentre per il resto era tutto a colpo d’occhio. Se la palla era fuori era fuori, non si discuteva, anche se nessuna linea bianca delimitava l’interno dall’esterno. Il corner, dopo estenuanti litigate con crolli di amicizie, veniva definito allo stesso modo, astrattamente, perché l’interno, l’appartenere ad un dentro, era sentito visceralmente.
Non c’era metà campo ma il palla a centro era la perfezione della geometria piana.
A seconda del numero dei giocatori il campo cambiava dimensioni proporzionalmente, secondo un’istintivo e ferreo sistema della sezione aurea.
Per il gioco di rubabandiera un tracciato rettilineo feriva leggermente il terreno, segno di fondazione di due mondi, di due spazi, di due gruppi umani agonisticamente uniti e contrapposti.
Al centro dei due spazi divisi, opposti ed infiniti, sulla linea terrestre, una statua umana immobile e congelata lasciava penzolare il fazzoletto da rubare. Uno dei due contendenti doveva sottrarre lo straccetto senza farsi toccare al momento della fuga per il rapido rientro nel suo gruppo.
A volte lunghi e tesi minuti di immobilità imprigionavano i due avversari che si studiavano a vicenda, mentre le mani sfioravano appena la bandiera ormai incadescente.
Questa sospensione carica di energia, questo tempo fermo ove tutto è immobile, persone campi case e tutto il resto del mondo, si chiama surplace.
Nelle gare ciclistiche si resta immobili a volte per molti minuti, non si avanza e non si retrocede. I ciclisti si studiano restando in equilibrio sulla bicicletta, ognuno osserva la tecnica dell’altro.
La velocità è contenuta nella sospensione immobile carica di tensione del surplace.
Nei campi passavamo interi pomeriggi a gareggiare con le nostre vecchie biciclette restando in surplace.
Ma questa condizione immota pronta allo scatto si estendeva anche al quotidiano, ai pomeriggi vuoti e fermi in un cielo azzurrissimo a non far niente, a ozieggiare, con i muscoli tesi pronti alla partenza, nell’attesa di qualcosa di portentoso e avventuroso, in surplace.

La ragazza del Piper in Viale dei pini

giovedì, Giugno 28th, 2007

piper

.

Non dimenticherò mai Viale dei pini.
In questo viale io vidi una sera camminare la ragazza perfetta, raggiunta da altri amici, anch’essi belli, che scendevano dalle case vicine e insieme formavano un gruppo armonioso, vestiti in modo da essere sempre un po’ avanti rispetto a noi, come se si fossero dati la voce.
Nella semioscurità del viale si vedeva solo il lampeggiare delle sigarette e i riflessi dei capelli mentre dall’altra parte del marciapiede in cui mi trovavo sentivo quasi il loro odore. Cosa si dicevano quella sera che a me era precluso?
Quando la vidi, pensai che fosse la vera ragazza del Piper.
La ragazza perfetta abitava in Viale dei Pini, ed io avrei voluto essere quel ragazzo triste.
Ragazzo triste sono uguale a te,
a volte piango e non so perché
tanti son soli come me e te ma un giorno spero
cambierà
nessuno può star solo,
non deve stare solo quando si è giovani così…

Se volevi imparare a vestirti dovevi vagare in Viale dei pini ed aspettare, nelle variazioni del giorno e della notte, questi figli nuovi della città in movimento.
Vedevi i primi minipull che in certi movimenti del corpo lasciavano scoperti con oculata distrazione lembi di camicia rosa e celeste, i morbidi mocassini neri di pelle di vitello indossati a piede nudo o con i calzini dello stesso colore del pull, i jeans di velluto a costine, bianchi o neri, con la lupetto blu sulle spalle sopra la camicia con i bottoncini sul collo; ragazze con la gonna corta scozzese, i calzettoni sotto il ginocchio e le classiche college, gli shorts a righine su culetti da infarto persino lavorati all’uncinetto da nonne all’improvviso rastellate dall’obitorio e mandate a forza dal parrucchiere, tutte mesciate a sferruzzare in terrazza copiando i modelli pubblicati su Annabella.
Autunno in città era uno sfolgorìo di colori di bosco, di mantelline rossobrune, di gonnine verdemarcio, ragazzine ricomposte dopo l’estate sfrenata e restituite al biancore, agganciate alle eleganti e altezzose madri che imperavano nello shopping e organizzavano per le figlie, si diceva, gli aborti a Londra.

Una settimana del maggio 2007

martedì, Giugno 19th, 2007

Per una settimana siamo stati investiti da tragedie familiari in cui risuonavano, in un delirio metafisico, le considerazioni dei “vicini di casa” che consideravano gli “attori” di queste tragedie molto “uniti”.
Talmente uniti da farsi fuori.
Family Horror, non trovate?
Una martellata in testa, una pugnalata alla schiena, un massacro con futuro nascituro.
Uniti “sino” alla morte, recita l’adagio matrimoniale.
Uniti “per” la morte, osiamo correggere oggi.

Le malattie

domenica, Giugno 17th, 2007

finestra

.

In questi anni ho visto conoscenti, amici, e congiunti, ammalarsi.
A colpirmi sono sempre stati gli attacchi improvvisi, imprevedibili, che lasciano le persone ancora in vita e parzialmente abili, per periodi più o meno lunghi, a seconda dei caratteri, della volontà, delle risorse segrete e insospettabili che ciascuno mette in gioco nei momenti estremi, in quella disponibilità a vivere comunque, almeno sino a quando una vita sia degna di essere vissuta.
Ma non siamo noi a rendere una vita, questa vita, degna di essere vissuta? Anche indipendentemente dalle malattie?
Certo dipende da chi ci sta dattorno, se siamo amati o meno, accuditi o trascurati, accettati o rigettati nell’indifferenza, anche se prima della malattia eravamo “qualcuno”.
Osservando le patologie e le fulminee catastrofi fisiche, impensate e imprevedibili, che si sono abbattute su persone a me care, mi sono spesso chiesto se le malattie ci assomigliano. Voglio dire che la malattia, anche quella che irrompe nella casualità di un giorno, o di una notte, forse esprime una segreta continuità con quello che siamo.
Potrei anche vergognarmi nel dirlo ma, alcuni miei amici colti da ictus o ischemia, che oggi vedo rallentati e sospesi, avevano già una certa naturale lentezza nel conversare e nell’elaborazione del pensiero e che, pur in possesso di grande intelligenza, oscillavano in una certa atonia o improvvise zone vuote del discorso che, in genere, venivano giustificate con le consuete considerazioni sul carattere: riservato, timido, insicuro.
Non posso fare a meno di effettuare un percorso a ritroso, di fronte ad una persona disabile per cause improvvise, cercando relazioni tra il prima (il sano ) e il dopo (il malato) e concludo sempre, e pericolosamente, accettando una relazione che forse ci vede malati da sempre, e che l’imponderabile, molto probabilmente, è ciò che già ci apparteneva.
Noi siamo la malattia.

La Storia

venerdì, Giugno 8th, 2007

storia

.

La nostra storia deve fare sempre i conti con l’idea di memoria.
Storia e memoria sono due cose diverse così com’è diversa la storia propria da quella degli altri.
Ma allo stesso tempo è difficile separare il proprio segmento esistenziale dalla linea più lunga che chiamiamo Storia. Ed è ancora più arduo inserire quella piccola parte che è, ed è stata, la nostra vita in quel lungo tratto ove eravamo non nati e, nello stesso tempo, non possiamo fare a meno di sentire una fortissima prossimità, una spaesata vicinanza.
Chi è nato negli anni Cinquanta ha compreso la guerra e le sue tristi conseguenze solo da adulto, indagandone i resti, i racconti, le rimozioni eppure un soffio separa questa nascita dal fungo atomico, dai Campi e dai Forni.
Questa insensata vicinanza, che proietta il nuovo nato con la sua culla di cenere verso il futuro, ci rimane tuttavia attaccata e prima o poi esibirà una durata più omogenea perché il tempo, quanto più tenderà a dilatarsi, renderà quel trancio di vita breve, sempre più breve, sino a farci confondere storia e memoria.
All’insensatezza si accompagna la trasfigurazione, dovuta alla non simultaneità con i quali si vivono gli eventi, ma anche all’ignoranza, a quel vago sentito dire che rende mitico o idolatrico, nel bene come nel male, ogni cosa.
La canzone cantata da Maurizio Vandelli degli Equipe 84, Auschwitz, scritta, come io seppi più tardi, da Francesco Guccini, la si ascoltava al Juke-box al mare insieme a quelle dei Beatles, dei Dik-Dik, dei Nomadi, dei Rolling Stones.
Le parole di quella canzone rimasero per anni incomprensibili ed equivocate:
“Son morto ch’ero bambino
son morto con altri cento
passato per un camino
e ora sono nel vento.”
Mi sembrava che dal camino si entrasse, come la Befana, le Fate e gli gnomi e non riuscivo a spiegarmi come si “passasse” e “si fosse nel vento”.
Ma il:
“Siamo a milioni
in polvere qui nel vento”
mi indicava chiaramente che si trattava di persone morte ma esse non rimandavano agli eventi di Auschwitz; non sapevo cosa fosse Auschwitz.
Un bel pezzo di conoscenza mancava e poi erano gli Equipe 84 a cantarla, non poteva essere così tremenda… al mare, mentre si prendeva il sole, in vacanza! Assurdo.
Eppure, la trasfigurazione che si attuava nella mia coscienza attraverso questa canzone fu autentica e necessaria, ci si avvicinava comunque al vero, come mi confermava la successiva conoscenza di adulto.
Chi è nato prima dei Cinquanta può trovare ricordi felici nel periodo fascista solo perché quelli erano gli anni della propria fanciulezza e solo un idiota può rigettare questa comprensibile, umana, verità, che comprende l’accettazione di una propria e irripetibile biografia.
Ma anche l’infanzia è irripetibile e sarebbe altrettanto da idioti rimanere inchiodati alla memoria, senza la rammemorazione e l’elaborazione dell’adulto.
Infanzia va custodita e protetta da una sentinella intelligente.
Probabilmente mai ci libereremo dal fraseggio tra storia e memoria ma con coraggio bisogna pur assaporare gli insani e ambigui piaceri del passato con gli occhi asciutti e secchi da ogni lacrima; con lucidità.

Una notte

martedì, Giugno 5th, 2007

notte

.

Sarà accaduto che gli odori notturni di un fine maggio, all’aperto, in un prato o in una boscaglia, prendessero il sopravvento sul corpo.
Il dionisiaco gelsomino avrà fatto rima con l’eterno femminino.
In un agosto più forte e potente l’aperto della natura sorpassava l’aperto di un corpo, rendendolo contorno, e non più protagonista.
Sarà pure accaduto che la ginnastica erotica sotto un cielo stellato e con il frusciare vociante degli alberi si sia arricchita con lo spettacolo di una insperata natura, tuttavia decentrandosi in un altro mondo, ove ci siamo sentiti osservati da un io distante, come in un palcoscenico ove allestivamo la nostra potenza, il nostro piacere, con uno sguardo più distaccato, pur partecipando all’amore appassionatamente; contando sull’esperienza, sulla “qualità” della prestazione.
Sarà dunque accaduto che pur penetrando quel corpo eravamo soli, in ascolto di altro; forse di noi stessi nel momento più inopportuno, quando l’altro era in ascolto solo di te.
Questo non ti sarà mai perdonato.
Hai tradito l’altro per ascoltare te stesso.
Potresti anche espiare a lungo questa imperdonabile colpa.

Figli

lunedì, Maggio 28th, 2007

obeso

.

Ecco, è il momento del distacco, comincia a camminare con le tue gambe, scopri l’arte di arrangiarsi, comincia a costruire qualcosa per te.
Diciotto anni? Venti? Trenta? Trentacinque? Forse mai? Figli per sempre? Si cambia quando ci si sposa e si forma una nuova famiglia?
E se ciò non accade o viene differito oltre i quarant’anni cosa succede? Rimane sempre valida la famiglia originaria e i genitori dovranno versare ai figli anche la loro pensione? Quando, quando, qualcuno me lo dica, quando si diventa persone autosufficienti?
Con gli attuali modelli educativi forse mai. Con l’attuale idea di famiglia, chiusa in un fortilizio e che si sente minacciata da altre ipotesi affettive, c’è poco da sperare circa l’emancipazione dei figli.
Sembra quasi paradossale che in Italia ci sia il divorzio.

Torniamo in cucina

giovedì, Maggio 24th, 2007

morning

.

Cosa c’è di più bello di una cucina? Non la cucina quando vi lavoriamo ai fornelli o vi mangiamo, intendo la cucina espropriata dalla sua funzione.
Concedetemi qualche retorica melanconia. Voglio dire la cucina al pomeriggio, tutta pulita e profumata, con le persiane socchiuse ed il silenzio attaccato alle pareti nell’assenza degli altri. Questa cucina, per chi non ha un luogo proprio, una stanza tutta sua, è un mondo conquistato e da abitare. Nella cucina il silenzio conserva nel suo grembo imploso il suono delle posate e dei piatti, con le tracce di quei rompiscatole che poc’anzi vi mangiava e litigava. La cucina è stata la prima esperienza di riuso dello spazio: studio, tavolo da disegno, campo di gioco, sala lettura, palestra erotica contrapposta al funereo letto matrimoniale tirato e liscio alla perfezione come una tomba di marmo sulla cui gelida superficie si consuma il rito coniugale, poveri noi, fare l’amore dove moriremo.

L’angelo della casa

sabato, Maggio 19th, 2007

casa economia domestica

“Casa è una breve parola; eppure, è un piccolo mondo dentro il vasto mondo; è difesa e rifugio, consolazione ed oblio. Forse non si apprezza mai abbastanza quel nido che ci ripara dalle intemperie materiali e morali, che è sempre disposto ad accoglierci dopo la lotta quotidiana, a ristorarci e a sorriderci, luminosamente, fra tante stanchezze e fra tante ombre.”

Con queste parole si annunciava il libro di economia domestica su cui le ragazze studiavano.
Materia che dava loro non pochi problemi, più del latino e dell’algebra, con gli esercizi da svolgere a casa come il cucito il disegno della disposizione della tavola perfetta la ricerca sulle piante d’arredamento le ricette e l’igiene personale. Aggiungiamoci l’Enciclopedia della Donna che faceva pendant con l’Enciclopedia dei Ragazzi per i maschietti.
Dall’Enciclopedia si imparava come ci si comporta a teatro e quali abiti indossare la sera o come si organizza un Capodanno come vivevano le dive e di pittura si vedevano i ritratti femminili che facevano sognare, dimenticando i pittori, ma almeno si stimolava il loro immaginario di adolescenti e future donne.
Molte persone sono rimaste, purtroppo, ancora lì o vogliono farci restare gli altri.

“Come l’abitazione sana, luminosa, pulita, ridente solleva lo spirito, anima la mente, suscita il sorriso ed il canto, invita la donna alle faccende domestiche, attrae l’uomo dopo il lavoro o l’oppressione degli affari per trovarvi sollievo, ristoro e nuova forza nella pace familiare, così invece l’abitazione malsana, oscura, sudicia abbrutisce le persone che sono costrette a passarvi la maggior parte del giorno, le rende tristi, svogliate, irritabili, tentate di fuggire dal luogo di sofferenza ove da tutte le cose emanano nausea e disgusto.”

“Una casa può essere paradiso e può essere inferno per l’essere umano. Quanto influisce sulla nostra formazione spirituale, sull’andamento della nostra vita fisica e intellettuale, sulla riuscita più o meno felice, più o meno apprezzabile, dei nostri piani, sulla realizzazione dei nostri sogni, una casa!”

(“Il governo della casa”, manuale di economia domestica, 20 edizioni dal 1946 al 1961)

Nomi tragici

mercoledì, Maggio 16th, 2007

vetrata

.

I nomi si fanno importanti e surreali quando c’è una deprivazione della vita.
Il mito e l’altrove sono presenti nelle vite disturbate, forse povere, mentre la semplicità e l’essenziale lo sono nell’opulenza e nella sicurezza. Il meno è della ricchezza mentre il più è della povertà.
Il precario lancia con il nome di persona un proiettile verso un destino ed un futuro migliori, di risarcimento: Vanja, Heros, Tatiana, Joanna, Paloma, Henry, Susy, David, Gioele, la Bibbia insieme a un cantante che rivive nei figli, un personaggio di una telenovela che si riattualizzerà per sempre, un nome che vuole essere nomos, un gesto battesimale poco impegnativo ma utile a circoscrivere la propria individualità o il proprio territorio, che spesso sappiamo inesistente e mancato, per reagire all’indifferenziato e all’anonimato a cui tutti oggi sembrano opporsi; un segno augurale che, non so che farci, mi deprime, perché si va a pescare proprio nell’assenza e nel suo clone sostitutivo disperato.
Giovani madri proiettano ombre di vite mancate nelle loro figlie; ancor giovani padri prolungano altrettante esistenze irrisolte in una genìa che dovrà rendere conto del proprio nome, troppo forte, troppo impegnativo, e che in qualche caso li marcherà nella loro anonima vita.
Nomi di figli grotteschi e tragici insieme, perché incolpevoli rispetto all’onomastico azzardato con il quale vengono designati sin dal loro mattino. E se sapessero, questi spericolati e creativi inventori di futuro e di formule magiche, cosa nascondono i labirinti etimologici di quel nome così sfacciatamente e felicemente comunicato all’anagrafe, forse ne sarebbero agghiacciati.
Quando le cronache sciorinano i loro funerei bollettini di morte, io vengo trafitto da questi nomi di ragazzi condannati dall’azzardo di un nome, al quale non potevano corrispondere.
Da un genuino nome di un nonno contadino si passa ai nipoti che si chiamano inverosimilmente Dionne, Ingrid, Didier; deflorati dalla lingua, che li proietta in un mondo nuovo, indefinito, volubile e precario.