Archive for the ‘Nuda vita’ Category

6 aprile 2009. Abruzzo

martedì, Aprile 7th, 2009

img_0298.jpg Ci ritorneremo, sempre. Sempre e comunque.

Il progetto della mia mostra abortita in Abruzzo e non so perché

giovedì, Aprile 2nd, 2009

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Nell’estate del 2007, a Montepagano, in occasione di una edizione di “Trasalimenti”, avevo esposto in buona compagnia di artisti una serie di operine di piccolo e medio formato raccolte sotto il titolo “City”. 

I lavoretti erano sistemati nelle soffitte del palazzo Mezzopreti di quella bella e antica città abruzzese che getta dall’alto il suo  sguardo alla vicina marina adriatica, mentre nel piano nobile del palazzo si dispiegavano le opere di Fabio Mauri. L’idea di stare sopra la testa di Mauri non mi dispiaceva. Essere artista “minore” ma sistemato sopra la testa di qualcuno che pur ammiriamo e rispettiamo mi pareva una buona posizione.

In quelle colorate rappresentazioni urbane, una pittura in forma di “maquette” come se si volesse dipingere la pluridimensionalità di un mondo con l’onnipotenza tipica dell’infanzia, circolavano però lavori che riguardavano la solitudine di un morente nella corsia di un ospedale, le rovine o l’angoscia notturna di una periferia; al gioco cromatico di una città felice serpeggiavano imminenti catastrofi, collettive o individuali, domestiche.

Lo stile, evidentemente, voleva occultare queste differenze rendendo il tutto “felicemente” fruibile. Lo stile con cui si dicono le cose è molto importante, per un artista la “forma” poi è l’essenziale. Un artista non può che formalizzare, sempre; iI contenuto è sempre nella forma.

In questa mia prova per “Trasalimenti 2009”, più impegnativa dopo le aeree soffitte di Montepagano, ho aggiunto, a completamento di una idea più generale, la campagna, il “paese” o, se volete, lo “strapaese” in qualche memoria storica e pittorica che molti potranno rintracciare; “Country”, appunto. C’è molta italianità in questo, di conseguenza molta cultura europea.

In un certo senso ” Country & City” conclude idealmente la narrazione cominciata a Montepagano in quell’estate di due anni fa. La scelta di un titolo in lingua inglese, una lingua “globale”, vorrebbe mettere in gioco il paradosso tra una velocità virtuale e la lentezza dei luoghi, o almeno una loro intrinseca  “resistenza”, esibendo un’ origine. Essere contemporanei significa sempre tornare a pescare in qualcosa di arcaico; con il rischio di essere inattuali.

Ma in verità, come ben sappiamo, pur definendo un percorso nell’illusione di averlo “compreso” e organizzato, lasciamo dei resti, delle inconclusioni, dei sentieri interrotti, dei progetti che meritavano forse un miglior destino, una lateralità pur importante del nostro viaggio ma che ha avuto poca fortuna, o  forse non è stato compreso. Noi stessi non siamo stati in grado di far comprendere. 

Sono quei lavori che contengono la progettualità di una crisi, sono le fratture tra le stagioni (esistenziali oltre che artistiche), le rotture tra le vertebre di un asse che pensavamo ci tenesse in piedi. 

Un progetto di crisi si delinea quando raccogliamo senza un sistema preordinato, in una specie di sospensione che oscilla tra noia ed inerzia ma ove si annuncia un lontano nuovo mattino. È un tempo vuoto. Eppure si è “costruito” qualcosa.

Le diciannove scatole reintitolate “facies” (non chiedetemi che fine abbia fatto la ventesima) nascono da questo stato di vuoto di un annoiato collezionista di cose inutili, recuperate dal fondo del’inessenziale e della marginalità, anche dalla spazzatura. Il progetto si è delineato spontaneamente in tracciati di volti, archetipi di volti, maschere, dominati dal demone della simmetria e dello specchio, che hanno aiutato l’idea compositiva, il farsi di una “regola”, per così dire. 

La serie “scultorea” Angelus Novus non è che la derivazione tridimensionale di queste scatole nate da un naufragio, per quanto colorato, mentre è evidente, per molti accorti osservatori, l’omaggio a Paul Klee e a Walter Benjamin.

Poi c’è un vecchio lavoro su parete dal titolo “Sistema nervoso” che per questa mia mostra desidero riproporre. Questa “istallazione” flessibile (che varia a seconda dello spazio e delle sue dimensioni) la definirei  “pittura”. Si tratta di logori stracci neri tenuti in “tensione nervosa” da pugni chiusi, calchi della mia mano e di quella di mio figlio (una involontaria metafora edipica?). La sovrapposizione di stracci, con le lacerazioni pendenti e le sfilacciature, vogliono essere nient’altro che scolature di colore e una modalità della  pittura.

La sproporzione tra lo sperpero di energia ed i risultati, quando proposi per la prima volta questo lavoro più di un decennio fa in un luogo molto particolare, mi spinge ora a mostrarlo ad un pubblico, spero, più vasto, e più libero da condizionamenti claustrofobici di “sistema”, che spesso tarpano l’autenticità del  gesto artistico.

Infine propongo un lavoro sospeso dalla terra, aereo, che abita metri cubi piuttosto che metri quadri lineari, il cui supporto è l’aria, il vuoto. Questi misuratori di aria e di correnti, ma d’interno, si fondano sullo stesso linguaggio e sugli stessi principi delle scatole “facies” e degli “angelus novus”, solo che vogliono sollevare lo sguardo dello spettatore verso un asse ottico verticale, verso l’alto, dove in genere non guardiamo mai, radicati come siamo alla linea terrestre ed alle superficii verticali ad essa perpendicolari.

 

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La Chiesa e la “vita activa”.

lunedì, Febbraio 9th, 2009

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Lembrione umano e l’esistenza inerte del comatoso segnano i due estremi in cui la Chiesa rivendica la sua autorità: la pre-vita (sospesa in vitro) e la pre-morte (sospesa dalle tecniche di alimentazione artificiale).

Due forme di immortalità grazie alla tecnica. Con la  tecnica la Chiesa ha tuttavia un rapporto confuso e ondivago.

Questa Chiesa non intende tutelare la “vita activa” – sfuggita ormai al dominio del potere ecclesiastico grazie all’emancipazione dell’uomo ed alla sua libertà – bensì la “non- vita”, l’assenza delle relazioni col mondo e con altri uomini, l’assenza della scelta e della coscienza individuale.

La coscienza, ci ricorda questa Chiesa, può appartenere agli esseri umani ma la vita appartiene a Dio.

L’agire è ormai spazio dominato dall’uomo ma la vita, come monade biologica , è spazio appartenente al divino. A Dio. 

Eppure Dio, dopo le fatiche della creazione, il settimo giorno si riposò, si ritirò dalle cose create per rimirarle, per vederle agire, per vederle vivere, insomma per vedere cosa aveva combinato. 

In questo week end di distacco, forse troppo breve, il Creatore lasciava le cose create alla loro responsabilità; sospendendosi, facendo un passo indietro, ritirandosi dal creato e ritirandosi da se stesso, forse voleva verificare se ciò che aveva fatto fosse veramente cosa buona e giusta.

Voleva forse che gli esseri si emancipassero da Lui stesso, che crescessero non come figli bisognosi petulanti e piagnoni ma come esseri in grado di badare a se stessi, che crescessero non come opportunisti e ipocriti che in nome della vita astratta calpestassero i valori della vita vera, reale, quella delle relazioni tra gli uomini. 

Forse non voleva che i princìpi  e le leggi che regolano la vita sociale venissero calpestati in Suo nome o per obbedire ai suoi lacché peccaminosi e irrispettosi del figlio suo, che si è pur sacrificato per loro inutilmente. 

È in quel week end troppo breve, in quel distacco  incompreso, in quel riposino sproporzionato e sparagnino rispetto alla titanica impresa della Creazione che dobbiamo riporre i nostri dubbi laici.

  

Quello sono io

mercoledì, Ottobre 15th, 2008

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La possibilità che potessi essere io quell’ammasso informe disteso sulla panchina o davanti al portone o accovacciato come una installazione tardo pop è qualcosa che ho sempre tenuto in conto da quando ho cominciato a pensare e guadagnare un pochino, diciamo intorno ai vent’anni. Sono io quel clochard, il mio destino potrebbe materializzarsi improvvisamente in quel barbone sonnacchioso che si arrotola intorno ai suoi stracci e che mi chiede l’elemosina. Se offro qualcosa non lo faccio tanto per lui ma, forse egoisticamente seguendo un investimento preventivo, per me stesso, per quello che potrei essere da un giorno all’altro, magari in età avanzata, solo, un po’ fuori di testa, un’ischemia e due ictus alle spalle, con addosso un cappotto di quattro taglie più grande (bello, ho un cappotto!) ed uno zainetto sforacchiato con dentro quei tre o quattro libri sbrindellati e salvati all’ultimo momento prima che il capovolgimento si abbattesse su di me.
In alcune perquisizioni quei libri mi hanno salvato, in altre ho preso più botte.
Ho conosciuto barboni sporchi e repellenti ma distinti e signorili parlare in perfetto stil novo, altri raccontarmi in dieci secondi la loro vita da far invidia a qualunque professionista minimalista ed io li scrutavo chiedendomi quale potesse essere la mia tipologia di appartenenza. Insomma per aiutare me stesso do qualcosa. Una volta a Roma un vecchio mi chiese di dargli qualcosina per potersi mangiare delle penne al burro. Qui è la precisione a colpirmi, la concretezza, oltre al fatto di condividere pienamente il suo menù, le penne al burro sono meravigliose. Bisogna sempre aiutare, dare qualcosa per aiutare se stessi in un giorno futuro, vedi mai la sorte, in cui saremo noi a chiedere. Se gli mettono fuoco sarò io a bruciare, se gli sputano sputeranno me e mi prenderò intera tutta la vergogna e la mortificazione e seguirò lui in tutte le zone basse e fognarie della società. Sarà dura, dovrò stare lontano dalle chiese, dai luoghi sacri e dai monumenti, mi si proibirà di chiedere elemosina, non potrò dormire nelle panchine perché hanno progettato panchine anti-barbone (pessimo design), sarò guardato con sospetto anche se in tutta la mia vita il peggio che si potrà dire è: in fondo in fondo è stato brav’uomo. Vagherò per le città come un fantasma pur essendo in grado di fare sottili analisi urbanistiche, sarò allontanato dalle chiese pur conoscendole sin nelle più nascoste e piccole pitture o decorazione o sculturetta o angioletto ma non servirà a niente perché il mio sarà un linguaggio muto e strascicato senza denti ormai e con il morso allo stomaco della fame. Gli uomini li vedo dal basso, sto sdraiato giorni interi a farmi viaggi che dimentico presto, sono confuso, poi vengo segnalato, mi portano via e non sanno che farsene di me. Una volta chiesi ad un vigile con la pistola sul fianco: ti prego, sparami.
Ma un interdetto etico preserva la vita, dall’embrione al rincoglionimento. La vita activa no. Ma, dico io, la mia vita è qui, o là, in città, sono un non residente va bene ma ho una storia non vi interessa conoscerla? no, ma se rispettate la vita io la vivo così, non mi è rimasta che questa, se sono zingaro? sì, sono anche questo, viviamo in comunità, ci piace così, ladri e stupratori? certamente ce ne sono tra noi ma io non sono così, mi chiamano buonuomo, qualcuno Professore perché ho letto la metamorfosi di Kafka in lingua ceca, se sono clandestino? ma sono anni che sono clandestino alla vita, al mondo, al consorzio umano, lo sono da quando avevo una partita iva una casa con giardinetto e la domenica gare di golf, lo ero già, ero clandestino, dovevate incriminarmi allora, ero già pericoloso a quei tempi, già covava qualcosa, ma non andate al cinema? la pre-crimine non vi dice niente? Minority Report, Spielberg… Philip Dick? già non si capisce niente quando vi parlo perché sono ubriaco e sdentato, ho venduto la dentiera.
Mi trattate come spazzatura ma non avete il coraggio di farmi fuori. I campi, già i campi, ottima idea, metteteci in qualche campo, come? chi li progetta? ci sono tante firme famose di architetti che ci si butterebbero a capofitto, qualche nome? Albert Speer? no i nomi non li faccio ho già abbastanza guai con voi, volete dei santini? ne ho centinaia, no? sono belli i santini, non ci credete più? li ho anche di Padre Pio, strumentalizzo la religione? ma è solo per mangiare diobono, per mangiare credo anche alle stimmate.

Come si comincia?

mercoledì, Ottobre 24th, 2007

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Un giorno lontano, dalla stanza dell’italianissimo zio, presi un libro, un bel tomo di quelle collane ben rilegate e dai titoli importanti che servivano più che altro a fare arredamento e che lui probabilmente non aveva mai letto.
Li vedevo sempre quei libri quando andavo a prelevare di nascosto qualche 45 giri, ed ora decisi, un pò svogliatamente, di prenderne uno. Mi distesi sul letto della nonna e iniziai questa lettura. Via via che le pagine scorrevano mi accorsi della cosa incredibile che mi era capitata tra le mani.
Dovete sapere che sin da bambino sono stato un fanatico ammiratore di Vincent Van Gogh e rimasi fulminato dalle pagine dell’Enciclopedia dei Ragazzi dedicate all’arte ed in particolare dalle riproduzioni della Vigna rossa, del Campo di grano con corvi e dalla “Stanza”.
Passavo ore a copiare e a tracciare sul foglio quei vertiginosi trattini e le assurde spirali dei cieli stellati fino a farmi cadere gli occhi. Ed ora cosa stavo leggendo? Nientemeno che la vita romanzata del pittore rosso, del fou rouge, dell’eroe del Borinage, del più povero di Montmartre, del malato di Saint-Rémy, del suicidio più grandioso della storia: Brama di vivere di Irving Stone.
Non storcete il naso e non mi toccate per favore Irving Stone, uno specialista di queste storie, o Kirk Douglas che interpretava Vincent nel film di Minnelli.
Nella linea in cui mi trovavo questi idoli non si discutono, farlo oggi sarebbe sin troppo facile e un pò ipocrita e poi non ha molta importanza da dove si comincia a leggere perché poi gli itinerari diventano imprevedibili.
Rimasi folgorato da questa casualità e dal fatto che quel libro era sempre stato là, a portata di mano. Conclusi che c’era il tocco del destino e che il libro mi aveva cercato.
Da lì, visto che Gauguin era ben rappresentato, divorai La luna e sei soldi di Somerset Maugham (più tardi vidi anche il film) poi la storia di quel nano puttaniere raccontata in Moulin Rouge, Toulouse-Lautrec.
Sono ancora in grado di commuovermi quando recentemente ho rivisto l’episodio di Sogni di Kurosawa dedicato a Vincent.
Ma la cosa veramente incredibile di questo episodio, che delimita inevitabilmente il mio trancio di vita, sta nel fatto che io passai dal pomeriggio all’oscurità in uno stato di trance dentro quel libro come se avessi dimenticato il tempo e le poppe di Manola. I nuovi campi, arricchiti dalla pineta nella nuova casa ove eravamo andati ad abitare, continuavano a chiamarmi con gli schiamazzi dei compagni, qualcuno venne a cercarmi suonando al citofono ma feci finta di niente.
Quando accesi la luce a conclusione del lungo tramonto mi accorsi che stavo leggendo quasi al buio ed un’altra atmosfera circondava il libro, quella luce elettrica che cambia il nostro leggere e segna il definitivo abbandono dei campi e dei giochi di strada. La linea d’ombra era varcata.

Morti

giovedì, Ottobre 4th, 2007

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Morti immobili in un letto, con il vestito migliore, puliti e lavati, con le scarpe lucide, ben pettinati e profumati al limite della soglia ancora umana.
Tutti immersi nella stessa penombra della veglia funebre, circondati dai fiori, dalle corone e dal cordoglio sussurrato, trattenuti prima che la loro anima abbandoni i loro corpi, come se si conoscesse il tempo della definitiva separazione.
I toni si smorzano, gli oggetti riposano, la coperta dei morti si distende sulla casa.
Essi sono guardati ma non possono restiturci lo sguardo.
Un’insopportabile e crudele passività spezza la consueta reciprocità degli sguardi e getta i loro corpi nel campo dell’esposizione indifesa.
Possiamo scrutare i loro difetti o la loro involontaria espressione che in quel momento non è delle migliori, e quasi non crediamo a quella immobilità e non-pensosità.
Ho sempre creduto, durante le lunghe veglie funebri, che essi ci scrutano molto e più di quanto facessero in vita, ma in un tempo breve, ed essi, ora, sono più benevoli.
La nonna non mi rimprovera per una risata inopportuna e Guido non ha nulla da contestarmi. Essi sono sicuramente più buoni e non è vero che siano immobili.
Se fisso attentamente i loro volti vedo che un sopracciglio si muove, che la bocca contratta si distende in un ironico sorriso e che la mano che ho baciato ha un fremito, non è allo stesso posto in cui ora l’ho lasciata.
Tra le labbra nere un filo rosso anima ancora una possibilità di parola, pacata, fatta di altra sostanza sonora e con altre finalità acustiche.
Dall’angolo della stanza in cui mi sono appostato vedo la forza stupefacente che questi morti emanano ora, cosa riescono a combinare tra la gente che è venuta a far loro visita.
Cugini si conoscono per la prima volta, parenti che credevamo bruttissimi sono diventati bellissimi, quelli poveri sono venuti con l’ultimo modello Alfa, quelli alti ora sono piccoletti, quelli antipatici non smettono di accarezzarmi, una ragazza-parente sconosciuta ha un culo bellissimo, quei fratelli che non si parlavano più per via di un’eredità si sono appartati in cucina e stanno soavemente conversando, appianando, accordando, quasi si abbracciano; si intrecciano lunghi racconti distribuiti tra varie stanze, saghe familiari e anàmnesi a me sconosciute vengono tracciate al capezzale del morto, una sfrenata voglia di chiamare il morto per nome ed intimargli di alzarsi si impadronisce di me.
Si comincia a mangiare qualcosa, si tira fuori il vino e qualche liquore, si accenna ad un sorriso, si fa qualche battuta, si ride di cuore e poi ci si vergogna e ci si rinsacca nel lutto ma non è come prima, un’elettrica vitalità serpeggia tra i vivi.

Tema: La noia

mercoledì, Agosto 1st, 2007

banco

Starsene sdraiati sui gradoni roventi dell’anfiteatro della pineta, nuovo e inutilizzato con le erbacce già ben pasciute tra le fessure del cemento, starsene con il libro in mano delle vacanze: Opiè, il ragazzo serparo. Lui sì che aveva le idee chiare e il destino segnato: diventare serparo, la figura più importante del paese, ripercorrere la tradizione dei padri e dei nonni, imparare a catturare i serpenti per il Santo trascinato per le strade una volta l’anno, nero e imponente avvolto dai rettili nella processione più pagana e dionisiaca mai vista.
Starsene gettati sul quel cemento ardente con la sola compagnia degli insetti e con il libro aperto sulla stessa pagina che non va avanti.
Una noia spessa e pesante, che cala dall’alto, un nulla che ti cancella i pensieri e poi te li ripresenta in una circolarità inconcludente che ti riporta sempre sullo stesso centro vuoto. Tutti gli scenari della vita che verrà si presentano davanti agli occhi e poi si vanno ad imbucare nellla cosmica pigrizia della noia che li nullifica tutti. Il surplace era uno stato di sospensione dentro una vita attiva, dentro il gioco, un’accumulatore per una successiva sfrenatezza, qui invece tutto è passivo e inerte e ti sembra di sfiorare la morte, di provocarla, quasi di desiderarla.
Fai l’orecchio al libro, la stessa pagina 22, un bianco camposanto di caratteri tipografici sbiaditi dal sole disseminato di zanzare e mosche spiaccicate, visto che alla morte tua cominci a preferire quella degli altri, tombe di formiche che hai schiacciato con il dito scrutandone l’agonia – soffre la formica? – una macchia più grande che ha fatto sparire intere frasi prodotta dalla morte di una zecca cieca e sorda che ha sbagliato bersaglio ed è caduta sul libro, richiuso e poi aperto per verificarne la fine. Così si è negoziato con la noia. Torni nella tua palazzina, Ornella, Ambra, Vanna, non ti degneranno di uno sguardo, Rosita non la vedrai più. Quest’anno non andrai neppure dagli zii e l’odore delle donne ti è precluso, è morta zia Adelaide e la casa per almeno un anno si è richiusa su se stessa, forse stanno anche digiunando. Comincio a desiderare la riapertura della scuola e quando la Signora D’Amico, scartando lentamente l’ennesima caramella alla menta che gusterà giosamente insieme alla mia interrogazione, mi chiederà come ho passato l’estate e se ho letto il libro delle vacanze io le risponderò dicendo tutta la verità che non le ho mai detto.
« No Professoressa, il libro Paravia non l’ho letto, non lo so come va a finire la storia.
Però vorrei mostrarle pagina 22. Sembra una carta geografica o una carta militare, ma su questa pagina c’è tutta la mia estate. Vede queste macchioline piccole marroncino? Sono tutte le formiche che ho ucciso.
E queste striature che attraversano la pagina che sembrano fatte da un pennino? Sono mosche, si sono trascinate per qualche centimetro depositando le loro viscere sanguinolente. Lei è stupìta, lo vedo, dalla macchia grande che coinvolge anche la pagina 21 e che ricorda le macchie di Rorschac. È una zecca, che ho schiacciato usando il libro come trappola.
Ho fatto delle ricerche in proposito. La zecca è priva di occhi e sente la sua preda solo attraverso l’olfatto. Il segnale che lo spinge all’attacco è l’acido butirrico che io emanavo abbondantemente quest’estate dai miei follicoli sebacei. Questo essere sordo e cieco sente il calore dei mammiferi ed io quel giorno ero accaldatissimo. Quando la zecca si è lasciata cadere da una foglia che era sopra la mia testa si è trovata a gustare non il mio bel sangue caldo ma, per errore cartesiano, la pagina del libro, precisamente la pagina 22. Immediatamente ho chiuso il libro seppellendoci la zecca.
Cara Professoressa la mia estate è stata l’estate della noia, vede come ho speso il mio tempo? Vede che carneficina ho fatto? Non ho studiato e non ho imparato niente. Ma lei, comprensiva e buona, da sottoterra o da sopra la terra non so dove ora si trova, mi concederà qualche mia considerazione personale. Tutta questa noia mi è stata utile per capire la mia irrilevanza in questo mondo, il male che ho fatto a queste povere creature, ma da questo fondo funebre ho mosso qualche passettino. Lei vede meglio di me come oggi si rifugge dalla noia, guai ai ragazzi che si annoiano, bisogna riempire tutto il tempo con attività nevrotiche che madri ansiose programmano al centesimo. Guai a lasciarli soli con se stessi nell’esperienza della noia.
È grazie alla noia invece che io mi sono un po’ ascoltato e conosciuto».

(dal catalogo “Trasalimenti”)

Il caldo e le pensioni

giovedì, Luglio 26th, 2007

carretto

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Gli anziani, prima o poi, muoiono, com’è naturale. Ma il caldo di questi giorni accellera i decessi e forse qualche cinico al governo, o all’INPS, si frega le mani, sperando nella “soluzione francese”, come nell’estate del 2003.
Quando gli anziani muoiono, a causa del caldo, pare non ci siano responsabilità, non ci siano colpe; forse la colpa è la loro che si ostinano a vivere da anziani. Morire da solo non puoi, per paradosso sei condannato a vivere a soffrire e a far soffrire chi ti è vicino e di testamento biologico da queste parti neanche a parlarne. Ma chi è l’anziano? Io, tu.
In una società che ha riproposto ferocemente le classi (i belli e giovani, i bambini e i minori, i grassi e i magri, le bionde e le more) gli anziani sono il sottoproletariato, al cui interno ci sono quei “fortunati” che vengono gettati a corpo morto sulle famiglie, sui figli, quasi sempre le figlie. Se abbiamo un ministro per la famiglia è perchè le istituzioni e lo Stato si disinteressano degli anziani in quanto ci pensa la famiglia, il motore economico italiano, che assorbe tutto. La famiglia è sacra, a destra, al centro, a sinistra.
La morte è tabù, siamo proiettati verso l’immortalità e l’eterna bellezza (il nuovo razzismo nazista e la nuova razza ariana), di conseguenza l’anziano è presenza laterale e fastidiosa.
Io, tu, saremo prima o poi fastidiosi.
Con la morte dell’anziano ci guadagnano l’INPS i becchini e il bilancio comunale.

La famiglia abruzzese

lunedì, Luglio 16th, 2007

sassi

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Me ne stavo l’inverno a studiare, in lunghi pomeriggi, sotto lo sguardo della nonna ad ascoltare i suoi intermittenti racconti del marito morto e della di lui famiglia di giocatori d’azzardo e di gran puttanieri.
Immaginavo lì sul tavolo da gioco, in qualche villa vetusta del solito barone decaduto, forse nella sbrecciata foresteria, o addirittura in cucina, con la cuccuma del caffè instancabile sopra i dischi concentrici della stufa, con le serve assonnate a portata di mano da palpare, sotto il cono di luce di pochi watts per risparmiare, immaginavo dicevo una serie di spostamenti non di cambiali e pagherò ma di miniature di case con terreno annesso che si affacciavano sul basso Adriatico anch’esso miniaturizzato, con il colore blu e qualche triglia guizzante, così come li coloravo nelle mie ricerche di geografia per il maestro Rosa.
Un fantasma di croupier spostava con la sua palettina pezzi di collina coltivata a vigna, appartamenti nella città del retroterra, lembi di spiaggia con rovina, spuntoni di rocche immemori abbarbicate su grigi calanchi instabili, tutto in piccola scala e realizzati da bravi maquettisti iperrealisti.
I calessi parcheggiati sull’aia che sfiorava la spiaggia, sotto tamerici e pini sghembi, erano anch’essi messi in gioco sul tavolaccio di rovere ove si animavano architetture e paesaggi monchi, mitologie proprietarie diluite da fiumi di sperma, di figli illeggittimi, di serve infilzate da abortivi lunghi sporchi ferri da calza.
Immaginavo donne sveglie al mattino che si ritrovavano senza più casa e terreno, nemmeno quell’orticello conquistato con la schiena piegata sino a ottant’anni, quel quadricciattolo di basilico e pomodori, zucchine e finocchio che se te lo tolgono muori e poi dicono che sei morta nel sonno tranquilla e invece per tutta la notte ti rivoltavi perché ti avevano espropriato la vita stessa.
Uomini che andavano avanti con fiaschi di vino e ozio, chiavate alle serve e alle loro figlie allampanate e ammaestrate a seghe e pompini, con mogli sorelle nonne bisnonne zie prozie nipoti figlie a tirarti fuori dal letame in cui cadi sbronzo e ripulito dal gioco.

Il brodetto di pesce

venerdì, Luglio 6th, 2007

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Un pomeriggio in cui mi sbattevo tra la cucina il salotto e il bagno non sapendo che farmene di me dei miei anni insignificanti del mio tempo del mio suicidio fallito e di tutto il resto del mondo fui testimone di una discussione durata ore sul brodetto di pesce, insomma con tutti i miei problemi e il mio nulla da fare queste donne, insieme a mia nonna, se ne stavano lì a cucire e a lavorare all’uncinetto, neanche fossero in un bow-window viennese, a disquisire sul brodetto ed io dovevo sorbirmi tutto.
– Eh no! Lo scorfano ci vuole, che importa se è brutto, puoi anche non mangiarlo ma dà il sapore, che brodetto è se non ci metti lo scorfano. Ma dove lo trovi lo scorfano? Ah ma io i fratelli li tradisco qualche volta, viene pure quel carretto la mattina presto no? Io lo scorfano lo prendo dal pescatore e anche se i fratelli Nunzio mi vedono non me ne importa, mio marito senza lo scorfano il brodetto non lo mangia. Quanto pomodoro usi? No no niente pomodoro mio marito lo vuole tipo guazzetto magari con qualche pezzo di patata, praticamente in bianco. Io lo faccio con il pomodoro a pezzetti, pelati Cirio. Pelati Cirio? Ma il pomodoro deve essere fresco, spellato e tagliato a pezzetti, lo compro da Olimpia, lo friggo insieme all’aglio e al prezzemolo e poi butto giù il pesce.
Il pesce tutto insieme? Ma il pesce non puoi metterlo tutto insieme, prima quello a cottura lunga e poi alla fine le paparazze e le cozze. No non è così, prima metti il pesce a cottura lunga poi lo togli e cuoci il resto che poi di nuovo togli e alla fine rimetti tutto e fai cuocere appena appena e poi metti il prezzemolo se magari avanza un po’ di sugo il giorno dopo ci faccio due linguine. Il prezzemolo fresco dopo? Sì il prezzemolo non va cotto insieme al sughetto va messo alla fine fa più aroma. Il peperoncino lo usi verde o rosso? Quello verde è più piccante ma fa un po’ amaro pensa che mio figlio grande il peperoncino lo tiene vicino al piatto e lo morde mentre mangia. Il pane abbruscato ce lo metti? Sì, però lo lascio più a mollo nel sugo perché mio marito con la dentiera nuova ha dei problemi. L’aglio però poi dopo puzza se lo mangi.
Può darsi, ma se lo mangiano tutti non se ne accorge nessuno.